luglio 18, 2010

8 luglio 2010

Bestemmiare sull'aereo, perché va troppo lento. Pregare non si sa chi o cosa affinché si arrivi in tempo. Arrivare trafelata e vederlo sul letto agitato, che ancora nessuno si è preso la briga di dargli la morfina. Andare dai medici e dire "non me ne frega un cazzo di istanze religiose e politiche, non voglio vedere mio padre soffrire, non voglio accanimenti terapeutici" sentirsi rispondere che ha pochi giorni, forse ore, forse solo minuti. Far ritorno nella stanza e finalmente dopo la prima iniezione vederlo tranquillo. La maschera d'ossigeno che si leva sempre e bisogna rimetterla sempre. Passare le ore a bagnargli le labbra riarse. Sorridergli e vedere che risponde gentile al sorriso. Aspettare. L'ultima notte ha dormito sereno. La mattina alle 5 s'è svegliato che piangeva con le mani tra i capelli. Correre a chiamare l'infermiera che gli faccia altra morfina e ringraziare sempre che ci sia la morfina. Stargli accanto e vederlo lucido. Sussurargli sono qui, ti voglio bene, non aver paura. Guardarsi negli occhi e comprendere che è lucidissimo, che osserva e sorride e saluta con la mano. Vedere che lenta la vita lo abbandona, la consapevolezza dell'arrivo della morte veloce, che giunge, vederla infiltrarsi dalle unghie delle mani e fargli cambiare colore. Fino all'ultimo respiro. Sapere, da subito con struggente dolore, il sentimento della nostalgia. Delle bestemmie, delle urla, delle risate, dello sbattere delle porte, dell'odore, del profumo, dei balli, dell'irrequietezza e della vivacità. Non basteranno milioni di pianti a farlo ritornare. Ed è subito un altro giorno. Con altre lacrime e con altri ricordi.