novembre 30, 2008

Siamo in troppi e ci vuole una guerra



La prima volta che l'ho visto era notte fonda e si stagliava sulla baia di fronte al mare, era tutto illuminato ed era immenso. M'hanno aperto la portiera della macchina, m'hanno preso i bagagli e m'hanno spalancato le ante del portone e ho fatto l'ingresso nella hall del Taj Mahal Hotel. Erano tutti gentilissimi e m'hanno accompagnata in stanza lungo i corridoi dell'hotel che però non è proprio un hotel come tutti gli altri. Il Taj è un castello. Era tutto antico, bello e lucente, con i lampadari di cristallo sfavillante che pendevano dal soffitto, e c'era la cascata nella hall e tutto lo staff era sorridente, benevolo e più che gentile era accogliente.
La mia stanza era spaziosa con il bagno in marmo di Carrara dai lastroni grandi, la rubinetteria pesante, le saponette e gli shampoo meravigliosi, gli asciugamani bianchi e candidi. Il mattino dopo uscendo ripercorrendo il lungo corridoio mi sono persa. Ma mi hanno subito preso per mano e m'hanno gentilmente portata dove dovevo andare. Dietro il backstage era tutto  un po' più decadente e più incasinato ma a suo modo aveva un ordine preciso e perfetto. C'ho impiegato un mese per capire le entrate e le uscite, dov'era la stanza riunioni, dov'era la mensa e la lavanderia. A volte prima di rientrare in stanza la sera m'aspettavo che uscisse il Minotauro, perché il dietro del Taj è un enorme labirinto. E poi le persone che ci lavorano dentro: hanno questa cosa speciale che sono lì da anni e anni, persone che lavorano lì dentro da trant'anni, venticinque anni e te lo dicono con umiltà e fierezza. Questa cosa così antica che non appartiene al mondo contemporaneo m'ha affascinato. Queste persone a loro modo speciali si facevano un mazzo pauroso, eppure avevano sempre il sorriso. E anche questa cosa qui la trovavo affascinante: il sorriso tranquillo e soddisfatto. Ma non era la soddisfazione arrogante, era quella del tipo essere contenti di quello che si sta facendo. 
Dicono che i terroristi siano entrati dalla porta di servizio e che fossero venuti con un auto della polizia, dicono che sapessero dove dovessero andare e dicono pure che avessero alloggiato dentro. Dicono volessero farlo saltare tutto in aria, un rogo enorme in pieno centro di Colaba, intervallato da altre esplosioni in giro per Mumbai affinché la polizia e i corpi speciali non capissero più niente. Era un piano perfetto, il piano mediatico per eccellenza. E se l'Occidente aveva avuto le due Torri, l'Oriente avrebbe avuto il Taj Mahal Hotel, perché lì dentro ci sono passati tutti, dalla Regina d'Inghilterra a John Lennon, da Indira Gandhi a Sofia Loren. Ha il fascino e la storia, sta davanti al Gate of India e tutti lo conoscono e tutti ci vorrebbero passare almeno una notte.
Poi...qualcosa s'è inceppato.
Forse sarà stato il solito guardiano notturno troppo soddisfatto del lavoro che stava svolgendo e che s'è insospettito ed è tutto precipitato. 
Dovevano mettere delle cariche dentro nei posti predestinati ma invece sono entrati nella cucina dello Shamiana con le armi in pugno sparando all'impazzata. Sono passati per la hall buttando esplosivo e sono andati su all'ultimo piano, nella cupola e lì hanno continuato a sparare e a far fuoco. Altri sono fuggiti e sono finiti all'altro hotel simbolo di Colaba e di Mumbai: Oberoi. Lì si sono asserragliati dentro prendendo altri ostaggi. Il mio collega Lattanzi voleva essere fiero perché fa lo chef. Mica perché ha portato il latte alla sua bambina. Sfido qualsiasi genitore a stare fuori e a pensare alla propria figlia che urla di fame prigioniera in una stanza. Si entra dentro e basta. Muori con tua figlia piuttosto, mica ce la fai neanche a immaginare che sta senza di te in quel momento lì. Non si chiama coraggio questa roba qui. Si chiama dedizione, devozione, dolcezza, delicatezza, dovere. Amore si chiama.

Non lo so quanti morti devono ancora portar fuori dal Taj. Non si sa ancora a quanto ammontano i danni. Dentro è un cumulo di macerie. I marmi son tutti forati dalle pallottole e in parte è andato a fuoco. Non so quante persone che conoscevo e con cui ho lavorato sono morte. So che ho visto le foto del Taj dentro com'è adesso e so che ho pianto come si piange un albero millenario che venga abbattuto dalla furia della natura. Perché io mi ricordo benissimo com'era prima. 
Dicono che ci vorrà un anno per rimetterlo a posto e di sicuro lo rifaranno bello, ma non sarà più antico e non avrà più l'aurea di un castello e il labirinto non ci sarà più perché Teseo ha ucciso il Minotauro. 


p.s. Quella sera stavamo tutti in silenzio davanti alle immagini della tv a guardare la cupola del Taj andare in fiamme. C'era questo silenzio totale dello staff del Taj, nessuno che parlasse o urlasse rabbia e dolore. M'ha impressionato questo silenzio totale. 
p.s Ogni qualvolta bisogna apprestarsi e sedersi al tavolo della pace per trovare un accordo (India-Pakistan) c'è sempre qualcuno che l'accordo non lo vuole fare. Il qualcuno vuole che la guerra continui per interessi prettamente personali. 
Si sta affermando la nozione che la nostra sicurezza si debba basare sui controlli della polizia se non addirittura sullo stato militarizzato e non più sulla rispettiva tolleranza e capacità d'accettazione e accoglienza. 
Quando si ha una pistola puntata alla tempia nessuno riesce a non avere paura, se si continua ad avere paura allora il detto "siamo in troppi e ci vuole una guerra" ha il suo perché. 

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novembre 14, 2008

Consigli per trovare la tua cucina all'estero


Impongo questa mia riflessione sulla cucina italiana all'estero. Mi rendo conto che è un argomento piuttosto vasto e che ho affrontato svariate volte.
Premesso che la cucina italiana all'estero va di moda, dicono sia leggera e fresca e quant'altro. La vedi fare e capisci che è la più copiata, la più malfatta e strapazzata. Sono giunta alla triste conclusione che solo se c'è uno chef italiano ci sia una vaga possibilità che abbia un marchio d'autenticità. Fondamentale: lo chef dev'essere bravo.
Prendi la cucina giapponese, stessa storia ma raramente è fatta da cani. Perché? Si tratta di impostazione/imposizione delle materie prime: se queste arrivano a destinazione allora forse la cucina è quasi simile a quella di casa altrimenti nisba. E' facile da capire.
Ti capita che puoi viaggiare quanto ti pare, rimanere affascinato dai sapori e dalle cucine degli altri ma dopo che stai mangiando per quattro mesi la cucina degli altri, t'arriva il momento di spleen, di nostalgia, di sfasamento e ti rimetti alla ricerca dei tuoi sapori. Perché alla lunga ti sfinisci di spezie, di piccante, di salsa di soia, di alghe, di pesci essicati, di brodaglie, di riso in bianco, di diarree e di mal di stomaco, di sapori irriconoscibili alla tua lingua cosicché un giorno ti svegli e hai voglia di uno spaghetto al sugo di pomodoro e basilico, semplice e fatto bene. Insomma hai bisogno di risettare la tua memoria dallo straniamento papillare. Allora ti sbatti alla ricerca dello spago fatto come dio comanda e in cosa ti imbatti? in genere nella devastazione di un genia di cuochi che non sono MAI stati in Italia e che, bontà loro ma non tua, ti offrono lo spago scotto e con un sugo sfigato tanto che t'acchiappa un'altra diarrea. Fulminante. Così guardi il tuo piatto sconsolato e quasi vorresti metterti a piangere. Che non te lo ricordi più com'è fatto uno spago come dio comanda. Allora di nuovo ti sbatti e finisci che t'infili nella prima grande catena di hotel stellati e questi hanno un menù 'occidentale' (e non diciamo americano giusto perché siamo internescional) che definiamo per amor di sintesi Continental che sarebbe poi la cucina internazionale composta guarda caso da: hamburger, club sandwich, Caesar salad, fettuccine Alfredo, la pasta e la pizza, mousse al cioccolato, tiramisu e pannacotta. Sono i piatti che ritrovi nei coffe-shop degli alberghi di tutto il mondo, presentati magari in modi diversi e che non hanno una ricetta precisa e di sicuro il tiramisù non è fatto mai con il mascarpone (che costa una follia). Ti siedi e ordini una pasta: sappi che te la prepareranno con ingredienti e tecniche del posto. Esempio classico è il piatto di spaghi che se sei veramente fortunato la pasta forse è della Barilla. Altrimenti ti ritrovi delle paste che non sai se definire tali. Il discorso vale anche e soprattutto per il sugo. Dimenticati dell'olio extravergine d'oliva. E senti questa: dimenticati del sugo di pomodoro fatto bene e del basilico. Sull'olio ci sarebbe da aprire un approfondito dibattito: quello che ti arriva in tavola all'estero sono gli scarti della produzione nazionale. (E ascolta quest'altra: non sto toccando l'argomento pizza. Scordati la pizza italiana. Quella roba lì non ESISTE fuori dai confini della patria tua. La pizza che ti servono è e rimane di matrice americana. Perciò è inutile che tu cliente italiano ti rimetta a piangere chiedendo la pizza. Non sanno cos'è e non rompere le palle). Pertanto per avere degli spaghi e della pizza tu dipendi da così tanti fattori da essere risucchiato nel vortice della storia dei fornitori, degli intrallazzi e bustarelle delle dogane, del nostro commercio estero che non funziona e che fa capo a qualche boss del piccolo territorio italico. Perché le materie prime che uno chef italiano deve assolutamente avere per fare una buona cucina e che non trova sul territorio, sono tante e te ne scrivo alcune solo per per amor di sintesi: pelati, parmigiano, formaggi (dalla mozzarella al pecorino), olio extra vergine d'oliva, salumi, pasta, farina, aceti e ovvio vino. Potrei dire anche il sale e il caffè. (E anche la cioccolata) Per inciso se il ristorante deve importare quasi tutto, chiude nel giro di due mesi. Perché l'importazione di ciò costa un cifrone e se vuoi fare una cucina autentica devi essere ricco sfondato. Lo chef tenta di barcamenarsi disperatamente. Se non ha i pelati il sugo te lo fa con il pomodoro del posto che magari non sa di niente e viene un sugo sciapo ma almeno è fatto con il pomodoro fresco e non il ketchup, e magari riesce a trovare anche il basilico, che non ha il sapore di quello italiano, ma insomma è un'erba aromatica.
Metti che se sei veramente fortunato e ti ritrovi in una buona catena di grandi alberghi e dentro la suddetta catena c'è un ristorante italiano e dentro al ristorante c'è uno chef italiano allora c'hai culo. Grandissimo. Allora scoprirai che lì la cucina italiana è più gustosa, creativa e buona di quella del ristorante che hai sotto casa e dove in genere sei abituato a mangiare. Ti rilassi, ti siedi e ordini: sei arrivato a destinazione, lo spaghetto è cotto come dio comanda e puoi star tranquillo. Ma informati sempre se il ristorante ha lo chef italiano. Se non ce l'ha: gira i tacchi e lascia perdere.
E' vero anche che ci sono metropoli dove abbondano ristoranti italiani. Ma anche lì devi stare attento, puoi incorrere nel vago riflesso della tua cucina perché magari di nuovo lo chef NON è un italiano. E' uno messo lì a sfornare coperti in un ristorante-macchinadasoldi. Perché la cucina italiana all'estero tira. Ma saperla fare bene è un'altra storia, ci vuole uno chef che sappia cucinare bene. Altro fattore importante: scoprirai che esiste un menù standard italiano all'estero. Un consiglio: leggilo bene e se trovi errori di battitura o d'ortografia sappi che il cuoco NON è italiano e molla lì. Non è un buon ristorante e lascia stare. Mettono burro, panna e l'olio extra vergine non ha storia e senso d'esistere in un ristorante del genere. I soldi si fanno risparmiando sull'olio extra vergine d'oliva e su un menu scritto male. Magari lo chef italiano c'è stato, ma di sicuro tre decenni prima e il turn-over nelle cucine è enorme. Il passaggio d'informazione della ricetta è come il telefono senza fili. Un disastro e un delirio.
Ogni capitale all'estero ha una sua immagine di cucina italiana e anche lì dipende dalla clientela abituale. Quando viaggi ti porti dietro un pacco di fotografie che finiscono per sbiadire e le cellule della memoria lentamente s'appannano tanto che tutto quello che ti rimane all'estero, rincorrendo la rimembranza, sono: risotti sfatti, paste scotte e pizze fraccicose. Ma mi chiedo se in patria mangi tanto meglio. Devi stare lontano dalle città, dove si sa si mangia male e affannosamente. E sono pochi quelli che conoscono bene la cucina, e neppure io che ci bazzico ogni giorno la conosco a fondo, mi travolge l'ignoranza: questa è la tragica verità. Mica per dire. Sul serio.

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novembre 05, 2008

La Storia a me piace (2)




Loro c'hanno creduto e hanno cambiato. Dice Toni Morrison che in Italia uno come Obama starebbe ancora aspettando la cittadinanza. 
Loro hanno la speranza. Noi? Mica per dire. Sul serio.