ottobre 29, 2006

Lapiccolacuoca fa la spiega di storia. Sesta lezione: il sorbetto


217 a.C. Callicula. Aprì la missiva chiusa dalla ceralacca e man mano che leggeva una furia fredda e omicida gli invase la mente. Raggiunse a rapidi passi il braciere e buttò dentro il messaggio appena consegnatogli. Altri morti. Non se lo potevano permettere. Roma non si poteva permettere di perdere vite umane, non avevano abbastanza coscritti e in quanto alle nuove reclute, maledizione: ci volevano anni di guerre per farne buoni militi. Stava costando troppo.
Aprì la tenda e l'aria fredda e gelida dei monti gli placò l'ira funesta e gli lasciò la mente lucida come sempre gli accadeva dopo che la ubris lo tramortiva. Lo sapeva solo Giove quanto detestasse quei momenti di sanguinoso trasporto. L' interiore voce gli sussurrò calmati cosa devi fare per raggiungere Annibale? cosa devi fare per sfiancarlo?
Mesi e mesi di attacchi alle spalle e ai fianchi, scorrerie, ruberie e piccoli tranelli e mai una vera battaglia con un esercito schierato...Annibale era furibondo, le spie glielo dicevano, mentre lui che non si poteva permettere di sprecare nessun uomo, perché non ne aveva. Sapeva bene che Annibale non ce la faceva a contrattaccarli e benchè perdesse pochissimi uomini, anche quei pochissimi erano per lui di fondamentale valore appunto
perché pochissimi. Quinto Fabio Massimo detto Cunctator, disprezzato in Senato dal suo nemico politico console plebeo Rufo e disprezzato dal suo nemico Annibale perché temporeggiava come dire che era un vigliacco, alzò le spalle e inspirò forte. Cunctator: già, mi dessero un esercito valido e perderemmo lo stesso. Perché hanno quelle bestie enormi e noi romani cadiamo in un deliquio di terrore. Animali così grandi, così enormi nessuno ne aveva visti mai in quelle terre. Elefanti...e sarà un massacro, non riusciamo a vincere contro Annibale, non ancora e non adesso. L'unica strategia possibile è sfiancarlo. Adesso quando una piccola vittoria avrebbe dato ai propri uomini uno straccio di speranza, Annibale li aveva di nuovo presi nel sacco e li aveva sbaragliati. Un'altra sconfitta.
Cunctator si chinò di nuovo sulle mappe e chiuse gli occhi e lentamente gli si chiarì il sistema di muovere nei giorni seguenti le altre scorrerie. Sarebbe andato a sud e avrebbe preso alle spalle il nemico, ma avrebbero dovuto marciare veloci. Dovevano muoversi più veloci e soprattutto essere più invisibili. Piccoli trappelli che continuassero a tracimare piedi su piedi e tagliare rifornimenti, sorprendendo i cartaginesi e...venne interrotto dalla voce del centurione che fuori dalla tenda si annunciò ed entrò
'Abbiamo un prigioniero'
Quinto Fabio Massimo lo guardò allibito
'E l'avete portato qui?' noi non dobbiamo fare prigionieri!'
'Oh no, è venuto lui da noi!'
Com'era possibile? Stavano attentissimi e l'accampamento non era visibile e tutti tacevano affinché nessuno, neanche la natura s'accorgesse del loro passaggio.
'Lui è strano- il centurione spostò il peso dondolandosi imbarazzato sui piedi -l'individuo più strano che abbia mai visto'
Cunctator il Temporeggiatore, guardò il legionario e rimase sorpreso dall'aria sconcertata, dopo gli elefanti nessun romano pareva più lo stesso. Annibale stava massacrando le loro menti che Giove lo fulminasse subito. Cosa altro aveva mandato loro?
Morso dalla sete della curiosità si fece portare dal prigioniero. Costui, individuo d'una grassezza senza fine e nero di pelle, era vestito di bianco lino e pelli bianche per via del freddo, sembrava essere ricco e giulivo. Sembrava. Sorrideva mettendo in mostra denti bianchissimi, nessuno tra loro aveva denti così bianchi e perfetti. I romani che l'attorniavano parevano soggiogati dall'uomo, lo si percepiva dal fatto che gli stessero leggermente discosti e da come lo osservassero completamente affascinati.
Quinto Fabio Massimo si avvicinò e squadrò l'uomo che s'era inchinato e aveva teso la mano che ovvio Cunctator non strinse. Il sorriso sulla faccia del nero uomo si spense.
'Parli la nostra lingua?'
'Certo!'
'Meglio. Sei un ambasciatore?'
'Oh no! sono un cuoco. il mio nome è Pier'
'...'
La sorpresa si dipinse su tutte le facce dei romani. Un cuoco?
'Sono il cuoco di Annibale e me ne sono andato via, e sono venuto a cercare lavoro da voi'
'...'
Calò un silenzio basito. Fabio Massimo lo guardò severo e aggrottò la fronte, si sedette e fece cenno al nero uomo di accomodarsi e si fece raccontare la storia. Con estrema cautela lo interrogò e ne venne fuori che il cuoco era un pasticcere (un che? fa i dolci...ah, e sono? cose con il miele o con la frutta! cose che si mangiano e sono dolci) e mentre il racconto proseguiva il nero uomo li ammaliò che erano mesi che la fame contorceva le loro viscere. Se ne era andato perché Annibale non apprezzava la sua cucina, anzi gli aveva urlato impropi e minacce quando aveva offerto una sua nuova creazione. Annibale NON capiva nulla di cibo, raccontò infervorato e ancora arrabbiato dal diverbio, a lui Pier il più grande pasticcere della storia un'offesa di tale genere non era mai successa e quell'uomo offendeva la sua arte e perizia, quell'uomo era arrogante e povero di spirito. Cunctator represse un diabolico: pare che il povero di spirito a tavola ne abbia troppo in guerra.
I romani al pensiero di cosa facesse quell'uomo con le mani grasse che impastava cose succulente, iniziarono a rispettarlo e ammirarlo, e le papille gustative comiciarono a salivare e la loro immaginazione galloppò verso sontuosi banchetti e favolose pietanze, cibo, cibo cibo...quell'uomo aveva dato da mangiare ad Annibale per Giove!
In un attimo il Temporeggiatore decise che il nero uomo doveva essere suo perché conosceva il cibo e chi sa di cibo smuove il morale, e magari la sfortuna si sarebbe allontanata e sarebbe stato diverso e loro avevano bisogno di mangiare bene, che con le pance piene si combatteva meglio...
Nei mesi che seguirono tra alti e bassi delle scaramuccie non ci fu volta in cui Cunctator affrontasse una vera battaglia, la truppa iniziò ad amare in modo spropositato il nero uomo pasticcere Pier, divenuto altresì pasticcere di Cunctator. In nessuna guerra si uccidono cuochi e medici. E quell'uomo per tutti gli dei era il miglior cuoco che avessero mai avuto! Lo amarono come si può amare solo una madre. L'uomo nero pasticcere Pier era gioviale, allegro, sempre con la battuta pronta e sempre disposto a ingegnarsi in nuovi manicaretti. Sembrava contento. Sempre.
Eppure il Temporeggiatore sospettoso fino al midollo continuava ad scrutarlo. Il nero uomo pasticcere Pier gli appariva troppo contento...
Nell'anno seguente nel pieno della campagna invernale sui monti campani il tempo si volse al brutto e fece particolarmente freddo e nevicò senza sosta. Una sera il nero uomo pasticcere Pier prese un pugno di neve e lo mise in una coppa di vetro. Aggiunse una serie di ingredienti (latte, miele, vino speziato e succo di melograno) li mescolò con perizia e portò la coppa a Cunctator, nella cui tenda si stava discutendo le ultime fasi delle scorrerie future, il quale appena lo vide, alzò la mano e impose il silenzio.
Il nero uomo pasticcere Pier si avvicinò e gli diede la coppa:
'Generale, spero che questo le piaccia, Annibale non aveva apprezzato, ma narra la leggenda che fosse la bevanda preferita di Alessandro Magno''
Il nero uomo pasticcere Pier porse un bastoncino cavo e disse 'Aspirate'. Cunctator aspirò succhiando e rimase fulminato. Era una sensazione nuova, sconosciuta ma nello stesso tempo antica. Come essere tornati bambini ed essere vecchi ugualmente. Nell'attimo che il gelo gli prese tutte le papille gustative, aggiungendovi zuccheri e mieli dorati e vino speziato, Cunctator chiuse gli occhi e gli arrivò inaspettata l'illuminazione e si vide le battaglie seguenti, le sconfitte subite per raggiungere l'agognata vittoria romana e la fine di Cartagine. Aprì gli occhi dopo un lungo momento e chiese sovrappensiero
'Com'è che conosci la nostra lingua?'
Rispose il nero uomo pasticcere Pier sorridendo coi suoi bianchi denti:
'Mia madre mi obbligava ogni mattina a studiare la vostra lingua. Diceva: conosci la lingua del nemico e conoscerai il nemico'
Cunctator piegò la testa aspirò un altro sorso e di nuovo scrutò Pier
'Ci conosci?'
Il nero uomo pasticcere Pier continuò a sorridere:
'Oh no mio generale! ma una cosa l'ho capita: che siete aperti alle novità e siete flessibili. Solo per questo vincerete la guerra. Da tempo per me i nemici sono coloro che non sanno di cibo.'
Il Temporeggiatore lo squadrò:
'Ne sei sicuro? Come mai sei fuggito e hai tradito la tua gente?'
Il nero uomo pasticcere Pier non sorrise più:
'Io non tradisco nessuno, e i cartaginesi non sono la mia gente. Io vengo da terre lontane e mia madre vi conosceva bene benchè lontana. Ho studiato per lavoro in Libano e in Sirya. E vado dove qualcuno apprezza il mio lavoro. E il mio lavoro è molto tecnico e non tutti sono in grado di apprezzarlo, ma voi lo apprezzate. Anche se siete poco civilizzati capite bene la differenza tra cose inferiori e cose superiori. Generale lei ama i cibi che preparo. Ama il mio lavoro. E il mio lavoro è tutto per me.'
Cunctator sorrise e tutti i presenti ne rimasero allibiti, che si sapeva il Temporeggiatore NON sorrideva mai, soprattutto perché il cuoco gli aveva appena offesi definendoli incivili.
'Grazie' e chinò la testa verso Pier che rimase egli pure imbambolato. Si erano capiti. E il Temporeggiatore da quel momento non ebbe più sospetti sul nero uomo pasticcere Pier, ne aveva carpito l'anima nel momento in cui aveva assaporato la dolce neve rosata. Aveva capito che solo il lavoro ben fatto spingeva il nero uomo e il lavoro apprezzato lo vivificava.
Il gelo, così venne chiamata la bevanda, divenne di gran moda a Roma e c'erano i Termopoli, carrettini in città che facevano affari d'oro vendendone tazze su tazze e in particolare i bimbi ne andavano ghiotti.
Ma del nero uomo pasticcere Pier, Plinio il Vecchio non parla e Tito Livio nulla ne scrive e di lui nulla si sa, ma leggenda narra che divenisse il cuoco di Quinto Fabio Massimo e che lo accompagnasse sino alla sua morte cuocendogli manicaretti su manicaretti, con grande delizia della gens Fabia.

Poi l'Impero di Roma morì e per molto tempo il gelo non venne mangiato. Eppure la tradizione di mangiare il gelato rimase viva e si solidificò attraverso i tempi tant'è che secoli dopo nel 1903 a New York Italo Marchioni emigrante italiano, prese la patente n. 746971 per l'invenzione del cono dove poggiare il gelato.
Che sì è cosa da bimbi ma piace anche ai Grandi.

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ottobre 27, 2006

Della consapevolezza senza colpa


Quando si è grandi nel senso di maturi si capisce a fondo la tematica dei rapporti umani basati su: sesso, soldi, e successo, cioè la tematica delle tre esse invariabilmente legata al potere (che poi è il successo). Bisogna comprendere in sintesi che tutto questo si traduce comunque in estrema solitudine non percepita in modo consapevole dal potente. Perché quando si è arrivati è naturale circondarsi di nani e ballerina, che la corte è importante per un potente, 'che la solitudine dello/dallo stesso è sempre disprezzabile e disprezzata.
In questa città come in tutte le città dove girano tanti soldi la storia è esattamente uguale alle altre città. Se hai potere non parli e non dici niente di male dei tuoi simili in pubblico, in privato ci si sbizzarrisce in infinite cattiverie e sublimi crudeltà. Prendi il magico mondo moda: stampa e stilisti. Sono tutti vincolati e stritolati tra loro. Non si parla male dell'ultima sfilata anche se fa cagare perché altrimenti lo stilista non passa i soldi della pubblicità su cui spesso e volentieri il giornale (e quindi i giornalisti) vive. Prendi il magico mondo degli chefs e cucine: piccole invidie e umane stronzaggini. E non si parla mai veramente male di un prodotto perchè altrimenti l'azienda non passa i soldi della pubblicità. Ne sono tutti ben consapevoli. Altrimenti qull'azienda viene danneggiata nella sua immagine e ne soffre il mercato e soprattutto si licenziano mille persone, e questa colpa non bisogna averla. Il giornalista libero di dire quello che pensa su una qualsiasi azienda (potente) italiana/mondiale non lo può fare a meno che non scriva su giornali che non hanno potere e visibilità. Ed è labile il confine tra cose buone da mangiare e quello meno buone. Ma se una cucina fa schifo, fa schifo e basta. Eppure un mondo intero mangia schifezze e quanta gente va in giro a bruciare McDonald's?
Capita a volte che le famose penne scrivano male di qualche altra penna famosa in virtù di una chiarezza mentale che non esiste e non fa altro che gettare discredito sulla categoria perchè i rapporti esistenti
sappiamo essere delicati, e diplomatici (tra potenti, tra chi sa persegue il do ut des e chi invece è semplicemente un pirata con tutte le nefande conseguenze). Si assiste spesso a quello che io chiamo 'gioco al massacro', lo si vede ogni giorno il massacro.
Lo si percepisce dalla cattiveria di interviste e controinterviste rilasciate e mai che il semplice lettore intraveda una chiarezza mentale, una logica ferrea sulla via da seguire. Succede spesso che si legga e non si capisca dove il potente voglia andare a parare, solo dei messaggi in codice e nessuno di noi ha il manuale di decodificazione di quel codice. Il potere difatti è sempre molto preciso e chiaro nei suoi fini, ma è sempre perseguito con estrema nebulosità nei suoi mezzi almeno qui in questa Italietta di mezzo, senza potere mondiale.

Se uno dice pane al pane capita che non abbia amici e capita soprattutto che accetti una dimensione di solitudine che è la dimensione della libertà d'espressione. Perché più sei libero e meno hai potere.
Spesso ho l'impressione di appartenere a una strana genia che nulla ha a che vedere con le tre esse sopraddette. E quando scrivo di luoghi non faccio caso che in quei luoghi le persone ci abitano e ci lavorano perchè io guardo oltre, e la vita infima (mia e quella degli altri) non ha molta importanza perchè le persone cambiano tantissimo senza neppure accorgersene, mentre la materia rimane tale e quale per moltissimo tempo. La mia vita non ha grande importanza dato che non vivrò in eterno pertanto quando maneggio la materia per farla diventare cibo, in realtà non faccio un'operazione che rimane nella storia, mentre se maneggio scritti e parole queste rimangono. Le parole hanno un potere inspecie se scritte. Ne sono molto consapevole.
Se solo sono sussurrate nei camerini, se solo si dicono nei salotti, se solo se ne parla nelle cucine (quella sfilata fa schifo, quel libro fa cagare, quel posto è orrendo, quel giornalista è uno stronzo, quella presentatice è una cocainomane) sono solo 'basse voci da corridoio', le parole non sono consapevoli e sono colme di colpa appunto perchè non consapevoli.
Se un blogger scrive sul suo blog una stroncatura di
estrema chiarezza mentale il potere della parola scritta e la libertà di mancanza di potere derivata dalla sua posizione inaspettatamente dà voce a tutti quelli che hanno aperto la bocca e hanno sussurrato cattiverie un momento prima e se ne assume la completa responsabilità, e definisce la colpa con consapevolezza. Senza sentirsi assolutamente in colpa. Soprattutto senza dimenticare che molti tra quelli che sussurravano erano magari giornalisti potenti. E la blogger qui presente è fiera di non essere una giornalista o un potente. Non potrebbe parlare e scrivere come scrive e parla: con consapevolezza e senza colpa.
Mi si fa notare che non bisogna parlare male di nessuno perché non si sa mai chi hai di fronte nella logica delle tre esse. La blogger qui presente di rado parla male di qualcuno. Parla male delle opere, dei materiali e delle cose. Un filo diverso. perché ha la piena consapevolezza che parlare male di qualcuno bisogna averne piena conoscenza. Siccome parto dal presupposto che io stessa non mi conosca appieno, è assolutamente inutile che mi metta a parlare male di qualcun altro.

La propria chiarezza mentale sta nel fatto di scegliere se avere la libertà di dire e rimanere soli, o il potere di fare e di stare in compagnia. Avere questa chiarezza significa scegliere di perseguire una propria visione e non quella imposta da altri. Se si scrive bisognerebbe avere la chiarezza mentale di sapere che la solitudine è dietro l'angolo, perché il potere della parola scritta è esattamente uguale al potere della logica delle tre esse. E' un po' come giocare in borsa: un giorno si sorride e il giorno dopo non più. Se si scrive bisogna avere la consapevolezza che è come entrare nella logica delle tre esse. Con una enorme differenza. Lo scritto rimane scolpito nel tempo, oltre noi e la nostra piccola vita. Del resto i romani (quei romani lì, mica quelli di adesso) lo dicevano: verba volant scripta manent. Bisogna perciò avere la consapevolezza senza colpa. Ecco io scrivo senza colpa e mi sento di dire che scrivendo in modo consapevole ho la percezione della mia totale solitudine. Scrivere è avere possesso del potere delle parole senza avere il potere delle tre esse. E' un altro tipo di potere. E' il potere della solitudine. Della consapevolezza di essere soli.

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ottobre 24, 2006

Dentro nel piatto


Uno si sbatte come un pazzo affinché una cucina funzioni, tra milioni di regole, istanze e normative. L'igiene del cibo, la sicurezza del personale, la pulizia del locale, il training, l'imprinting e la fatica umana.
Eppure...Non ci puoi fare un cazzo quando una sera ti riportano indietro un piatto di tagliatelle nere con minutaglia di pesce e mazzancolla lardellata con dentro UN CHIODO. Il chiodo nel piatto?? Sì un chiodo grande e nero e nuovo. non vecchio, non arruginito, non invisibile. Pensi a tutte le possibilità la prima e non ultima che sia finito per cause divine a prescindere da te e la paranoia s'innalza a livelli infiniti. Come? quando? dove?

Analizzi ogni centimetro quadrato della tua cucina e ti guardi in giro, insomma è una cucina non un ferramenta. Ti tocca una serie di domande tra l'agghiacciato e il terrorizzato: se il cliente avesse inghiottito il chiodo e lo stesso gli avesse perforato lo stomaco e sarebbe morto e tu improvvisamente saresti apparso sulle prime pagine dei giornali con la scritta: lo chef assassino...eh cazzofai eh? Non proprio la mia aspirazione più alta dev'essere sincera.
Comunque la faccenda si è risolta rifancendo il piatto con mille scuse e offrendogli la pietanza. Mica tutto la cena. Stiamo scherzando?!
Nei giorni seguenti ne abbiamo discusso e parlato ed è saltato fuori della quantità di gente che se ne va in giro per i ristoranti a mettere nei piatti una qualsiasi. Oppure di camerieri che nei piatti ci sputano, ci buttano il capello, ci buttano il ponte di denti. Sì avete capito bene. Un cuoco di un ristorante aveva assaggiato con un cucchiaio il sapore, il ponte gli si è staccato, lui non se n'è accorto e ops i molari finti sono caduti (si badi bene alla sbadataggine del cuoco) nel piatto. Ma quello che aveva stupito e basito il cameriere è stata la reazione del cliente: ha spostato il ponte sul bordo del piatto e ha finito di mangiare la sua pietanza con molta nochalance. L'eleganza infinita di certa persone mi colpisce molto.
Tutti a dire: io al suo posto avrei vomitato anche le budelle! Ma se a voi capitasse un chiodo nel piatto, che fate? Direte: meglio di un pezzo di dito, di una falange, dell'unghia di un piede. In materia c'è un'ampia e leggendaria casistica di cosa uno si ritrova nel piatto, oppure di cosa fa la gente per NON pagare il conto. Oppure vi mettete a urlare: vi denuncio tutti, mi volete morto!

Comunque a me non era mai successo di avere un simile problema. Adesso quando ordinano le tagliatelle, ci sembra naturale che in cucina si parta con la gag: con o senza chiodi?.
Capita sempre così con i terrori veri. Che dopo bisogna ridere per forza. Chi non ride s'incazza e chi s'incazza non capisce la difficoltà di vivere senza ridere. La professionalità si misura anche nella circospetta visione di ciò che ci circonda avendo la certezza che quel che ci circonda è irreale. Se non si è capaci di sognare è inutile parlare di chiodi nel piatto. Che qui se ne mangia a colazione. Tanto da stare male e farne indigestione. Per dire.

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ottobre 19, 2006

Gold


Sapete bene quanto detesti recensire i ristoranti e i posti nuovi che come funghi di mezza estate si presentano in autunno. Recensisco al massimo un film, un libro, una 'nuova' ricetta. Al minimo posso descrivere personaggi che mi appaiono come un misto di tre/quattro tipologie di bipede senziente e non, incontrate e contemplate non usando alcun microscospio, in modo da dire nonperdotempo. Basta uno sguardo, una gettata di neuroni oltre il ponte di idiosincrasie, antipatie, simpatie, sentimenti che s'arenano sulla riva dell'epidermide e subito mi riesce scrivere fluente eppure il posto nuovo...
Va da sè che in città grandi (oltre il milione di abitanti per intenderci) ci sono sempre dei posti nuovi che aprono i loro battenti, fra tanti numerosi aperti l'ultimo in città ce n'è uno che sembra la hall di un hotel arabo. Si chiama Gold. Tutto d'oro. Si badi bene non è il posto da finoccchia trash, (c'abbiamo già Jiascavalluccimarini per quello) ma è il posto dove un Ranzani non riesce ad affrontare la sua schizofrenia di ricco-barbone.
E' un posto merdaviglioso, davvero! per dire: ci tengono il video nel cesso.
Quando chiudi la porta c'hai un visorino davanti dove ti puoi guardare un filmino (VOGLIO conoscere la mente malata che non mi fa pisciare/defecare in pace). Vorrei aprire qui una discorso sulla programmazione, del tipo: cosa mandate la mattina, il pomeriggio, e soprattutto la sera? affinchè uno si possa chiudere nel cesso a sera inoltrata per la favolosa programmazione di Rocco Siffredi e non ne esca più. Fuori dalla porta: una fila lunga un film. Da scagazzare davanti al cesso disperato perchè nessuno t'apre più. Voglio sapere se ci sono dei sensori collegati alla programmazione del video scelto (sensori di odori e puzze, esisteranno pure dei sensori scatologici o no?)
Ovvio che ci sia un pienone, del resto dietro ci sono Docce&Gabinetti. Ho intuito che in questa città l'eccesso prende sempre piede: saranno stati i fast&furious dei mitici anni '80 che mai si sono appagati e placati, saranno stati craximartellidemichelis ma bisogna pur essere sinceri quegli anni lì da lontano ci appaiono piccoli capolavori di estrema raffinatezza e semplicità. Gold non appartiene al semplice (perché mai dovrebbe?), nè al bello raffinato (cos'è? una categoria dell'animamia?).
Hanno pensato al lingotto d'oro e voilà Gold. Ti sembra di essere entrato sbadatamente a Fort Knox, o nella riserva centrale aurifera di Banca Italia, forse hanno visto troppo Goldfinger... va a capire le perversioni, magari sono rimasti scioccati dalla ragazza
morta intossicata da tutto quell'oro, quella lì che passava per caso sul letto di James Bond, va a capire le milioni di ipotesi. Eppure la mise en place ha un sua eleganza (americana), sarà che il tovagliato di lino bianco ha sempre un suo fascino (d'estate, d'inverno ci si chiede se non parrebbe più opportuna la pelle di lucertola), i lampadari sono imponenti, e la grandezza...ecco no, su quella non ci siamo, il posto incredibilmente è PICCOLO!!. Quando entro in questi film dorati io li voglio enormi: 3000 metri quadri d'oro minimo. Insomma l'Antico Egitto deve aver insegnato qualcosa: una certa immensità dell'eterno, e invece... si fermano solo a pensare a quanto luccica l'oro. E siccome manca lo spazio nella vecchia Europa: il posto è piccolo. Il bar è piccolo, la lounge è piccola, la scala è piccola, e per finire i cessi sono piccolini (quelli sopra, quelli sotto abbastanza grandi). E siccome io alla grandeur ci tengo ci sono rimasta male...di fatto l'oro se non è messo in situazioni (grandiose) risulta comprimente.
Ma non ho detto tutto: Gold non è costruito con autentico oro (come nell'antico Egitto ekkekkazzo), è finto. TUTTO FINTO! Barboni! Quando entri nel palazzo dell'emiro sai che la rubinetteria è d'oro (vero), e ti fa una certa impressione girare la manopola. La delusione cari lettori/lettrici come avrete capito è stata enorme.
Colazione da Tiffany a me ha insegnato qualcosa: i diamanti sono volgari, e aggiungo io: quelli falsi sono merda. Se è paccottiglia io butto, preferisco la plastica. Capiamoci: se non è un quadro del Caravaggio ma una misera foto che riproduce male una sua tela, allora ragazzi non abbiamo capito un cazzo. Ecco: potevano farlo tutto nero, tutto bianco e ci sbattevano dentro una tela famosa di un pittore famoso (magari un Canaletto,
va bene anche un Guardi ma autentici)...ah già non hanno quei soldi lì e non sanno comprare bene...Io l'ho sempre detto che gli stilisti sono voglio ma non posso e Gold è la metafora di tempi poco ricchi. Tutto d'oro (falso) tutto piccolo (vero). Come cazzo fai ad avere un orgasmo per roba così?
Ci mangerò un giorno e vi dirò com'è, aspetto che passi il momento magico dei primi tempi...
Il cesso devo essere sincera mi ha completamente ammaliata! Se passate in città andate a bere un caffè, passate al cesso. Uno sballo ipnotico. Mica per dire.
Gold, via C.Poerio 2/A, 20129 Milano tel. 02-7577771

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ottobre 10, 2006

2005. Seul. Kimchi.




Mi mandano da Tokyo a Seul perché è scaduto il visto. Da quando sono cadute le Torri i governi hanno deciso che le frontiere devono essere chiuse, perciò si chiudono non rinnovando i visti e sbattendo fuori le persone che stanno lavorando, studiando e vivendo. Visto scaduto, quindi viaggio fuori dalle frontiere giapponesi. Meta più vicino: Seul.
Sono felice di andare a Seul perchè da quando sono a Tokyo seguo sempre "Dae Jang Geum", una soap storica ambientata nella Corea del XV sec. che narra le gesta di una cuoca di corte (la cucina di corte aveva una scuola statale a numero chiuso, si studiava cucina e medicina assieme). E' una storia dove ci sono buoni e cattivi e tantissime kattivissime invidiose, ma soprattutto milioni di informazioni sull'antica cucina di corte. L'ultima cuoca di corte si chiamava Han Hee-sun, della dinastia Choson. La telenovela è famosa in tutto l'Oriente, milioni di casalinghe seguono le avventure della buona, onesta e bella nonchè intelligente Gianghiu (Jang Geum si pronuncia appunto Gianghiu). Milioni di lacrime versate per la sfortunata Gianghiu, che ha un accumulo di sfighe che neanche Candycandy. Ma ormai ho capito sta cosa: gli orientali adorano piangere.
Arrivo di sera in questo aereoporto enorme, un po' sciatto, non lucente, un sacco di luce livida con le superfici che non la riflettevano. Intuisco che la Corea rientra in quei paesi che io definisco: 'voglio ma non posso'. Mille piccole cose che fanno la differenza tra il vero ricco e il quasi ricco e una di questa è la luce dell'aereoporto. La stessa luce la trovi a Mosca, a Mombay, a Pechino. L'aereoporto ha un'odore tra cavolo cinese, aglio e un'altro irriconoscibile un po' stantio ma che scoprirò nei giorni seguenti essere l'odore tipico di Seul. Per arrivare in città bisogna prendere l'autobus o la metropolitana. Opto per l'autobus così mi dico vedo la città.
Scelta sbagliatissima. Entro in un delirio di traffico che Milano all'ora di punta in tangenziale pare una gara di Valentino Rossi che sta rimontando. Seul è enorme, e il traffico somiglia paradossalmente a quello di Napoli, il rosso del semaforo è una lucetta dell'albero di Natale, s'accende e si spegne a intermittenza senza un particolare significato. Dopo tre ore arrivo in albergo definito deluxe e mi chiedo perplessa dov'è il lusso. Mi viene il magone che ero abituata alla pulizia giapponese. Non faccio però a tempo a deprimermi perché ho appuntamento con lo chef dell'Holiday Inn: Maurizio. Emigrato 10 anni fa, ha sposato una coreana e vive bene e sta bene. Una bella persona, è disponibilissimo a farmi da guida e spiega.
Mi dice che la nostalgia di casa ce l'ha sul cibo, ma siccome fa cucina italiana e insegna a cucinare italiano riesce a superare i brutti momenti.
Mi fa scoprire il dietro dell'albergo dove sembra di entrare in un film anni '50 nei bassi napoletani, manca Totò e poi è uguale. Mercati buttati sulla strada, un casino, un'atmosfera meravigliosa, tra lo sgarrupato e il devastato, sembra di stare a Forcelle.
Tra il vento freddo e lo smog, girando per i magazzini e osservando i vestiti tradizionali, assolutamente superbi, semplici ed elegantissimi, comprendo che in realtà la Corea sta vivendo una crisi economica non indifferente. Comprendo inoltre che i coreani non sono per nulla gentili. Gente aspra, cattiva, aggressiva e poco accogliente. Sembra quasi che se la tirino. Eppure dietro la scortesia noto una mancanza di ipocrisia e una chiarezza che venendo dal Giappone apprezzo molto.
Maurizio mi porta in giro per la città e mi dice cosa devo andare a vedere sottolineando che non c'è niente di veramente antico. Tutto ricostruito. Perché quando sono arrivati i giapponesi nella loro grande espansione asiatica degli anni '30 hanno distrutto tutto (la differenza tra nazisti e nipponici sta nel fatto che i nazisti rubavano quello che c'era nei musei degli altri. I giapponesi no. Bruciavano tutto. Tutto brutto dicevano.) E poi finiamo in questo ristorante bellissimo dentro a una villa vicino al Palazzo imperiale. Le signore che servono sono vestite come Gianghiu e io mi emoziono. Perché bisogna aggiungere che i coreani sono i belli dell'Oriente e le donne in effetti sono belle sul serio. Il menù è ben scritto e scopro che tutto ha quel strano sapore, odore e colore sentito all'aereoporto e finalmente Maurizio mi spiega cos'è. E' il kimchi: il cavolo cinese messo in salomoia con peperoncino e aglio. Una violenza gustativa. Ma è buono. Un gusto contadino. Manca solo l'olio d'oliva, ci fosse si potrebbe dire di stare in Calabria. Tutte le donne coreane lo fanno in casa. Ogni famiglia ha la sua ricetta. Insomma il kimchi è come il sottolio da noi.
E' buono la prima volta. Anche la seconda. Poi siccome lo mettono ovunque, diventa nauseabondo. E se osi chiedere un piatto senza kimchi ti osservano come tu fossi un povero demente senza lingua.
Tre giorni con il kimchi. La mattina mi svegliavo e sentivo odore di kimchi, la sera mi addormentavo con l'odore di kimchi. M'era presa una fissa da paranoica. Il terzo giorno prima di partire girovagando, ho visto la salvezza d'Occidente nominata Starbucks. Mi sono fiondata lì e mi sono divorata muffins, cheese-cake e tre bicchieroni di caffè. La coreana alla cassa mi ha offerto una confezione di kimchi
da mettere non so dove. Me l'ha offerta e sorrideva gentile, l'unica gentile trovata l'ultimo giorno di Corea, e io sorridente in risposta ho scosso la testa, ma lei sorrideva e me l'ha messa sul vassoio e allora l'ho presa e adesso è dentro allo scomparto del mio frigo. Non ho il coraggio di aprirla. Ho paura. Un moderno terrore. Altro che fungone nucleare. Per dire.
(a sinistra Gianghiu, a destra l'ultima cuoca di corte Han Hee-sun)

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ottobre 06, 2006

E ci sono giorni in cui...





Ci sono giorni in cui si fanno le stesse cose dei giorni precedenti, uguali ai giorni che verranno: inforcare la bicicletta e percorrere mezza città, pedalando e pensando all'organizzazione ottimale del lavoro, senza perdere tempo tuo e degli altri. Ci sono giorni in cui entrare in cucina ti sembra di entrare in un altro mondo e ti metti subito a fare commenti e dare ordini tipo: avete messo in ordine i frigo che stavano una merda? eh? e la brigata ti guarda con la scritta in fronte: lasolitarompicazzo!
Ci sono giorni in cui entrare in cucina significa precipitare in un un altro mondo dove la tua brigata sta già lavorando e chiaccherando, ghignazzando su ultima volta che si sono calati l'acido ed è finita in rissa e si sono schiantati dal ridere. La rissa? l'acido? ancora Quadrophenia? adesso? qui? e di nuovo ti guarda : lasolitastordita!
Ci sono giorni in cui 'svegliarsi la mattina' messa lì così fa schifo e potrebbero scrivere delle frasi migliori ma pare che vadadaddio e tu sei davvero su un altro pianeta tagliando le cipolle e piangendo senza sosta. La brigata dice: ti piace la canzone eh cheffa? risposta: La trovo merdavigliosa!!
Ci sono giorni che pedalando per la città raggiungendo il tuo luogo di lavoro il cielo ti appare tanto azzurro che è proprio quell'azzurro lì, allora fai partire la playlist dal Conte con le cuffie a tutto volume frantumandoti i timpani, spiani le tue pedalate e ti sembra di stare in un video muovendo le labbra all'unisono con le note ed entri in cucina, ti levi le cuffie e la tua brigata è lì che canta a squarciagola we will rock you, brandendo mestoli, coltelli e forchettoni e finisce che ti metti anche tu a cantare che FreddyèsempreFreddy.
Ci sono giorni in cui il locale si riempie e tu ti chiedi perché, per poi scoprire che c'è una quintalata di clienti che ti vuole salutare che ti ha riconosciuto ma tu anche no, che vagamente sai riconoscere un viso se non dopo le canoniche dieci volte che l'hai visto e rivisto.
Ci sono giorni in cui ti chiedono sempre di fare le ricette quelle della nonna e della mamma e tu estenuato ripeti che non puoi fare la cucina della nonna e della mamma perché sei uno chef e non hai idea della sua memoria gustativa e non te ne può fottere di meno che stai guardando le statistiche del venduto del piatto e hai appena scoperto che il purea sta vendendo pochissimo e non ne comprendi il motivo.
Ci sono giorni in cui vagando per la rete ti imbatti nella notiziola del Wall Street Journal che la tua Apple e l'adorata Starbucks (che in Italia NON c'è e non si sa perché o meglio l'hai quasi intuito il motivo) si sono fidanzati e a te sembra il matrimonio economico meglio riuscito del nuovo millennio del nostro pianeta.
Ci sono giorni in cui quando finisci che sei morto di fatica e chiusa la cucina e salutato tutti, inforchi di nuovo la bici e pedalando alzi lo sguardo in alto e ti fermi a contemplare la luna e ti ricordi di altri spazi e tempi, e speri che tutto quello che s'è scritto sulla Luna si continui a scrivere, attraverso i millenni sempre uguali fino alla fine della nostra era di specie e quando saremo scoperti da altre specie, queste riusciranno dopo molto a tradurre le migliaia di versi dedicati a lei, si stupiranno di certo della nostra ripetitiva fascinazione per l'unico astro splendente e argenteo che appare lassù e sembrerà loro il matrimonio poetico meglio riuscito dell'intera nostra galassia.
Ma guarderanno perplessi il logo di Starbucks e si chiederanno cosa abbia mai voluto significare, mentre il logo della mela lo capiranno benebene, che di meli sicuro ce ne saranno rimasti.

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