marzo 19, 2006

Sono fuori per lavoro

Sto partendo per Hong Kong e per Shanghai. Non credo di poter scrivere e quando rientro faccio il sunto degli appunti di viaggio. Ma siccome vado in Oriente so cosa mi aspetta: cinesi, cinesi e cinesi. E ancora cinesi, per cambiare un po'.

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marzo 17, 2006

cibo e politica



Posso fare Paolo Mieli? Benché io sia in sintonia con quanto dica Settore nel suo post "13 aprile", faccio quella che dò il voto a quello che non è al governo, adesso. Eppure ci sono un casino di troppi "ma" e tanti "se".
Ma e' come entrare in un bellissimo ristorante in una posizione invidiabile e dall'alto si scorge un panorama mozzafiato. Ma in cucina c'è uno chef che non sa cucinare. E non lo sa fare neanche il suo sous chef e la sua brigata. Non sa neppure scrivere un menù. Come se non bastasse il ristorante è in netta perdita.
Se arrivasse un'unica cliente (io) e chiedessi di vedere la carta e sul menù ci fossero scritti una marea di piatti, ma incredibile! scopro che non ci sono nè gli antipasti nè i dolci e guarda caso io voglio mangiare solo un antipasto e un dolce.
Per farla breve: non mi sento di dire che questi due candidati mi rappresentano. Quello che dovrei votare non dichiara in modo chiaro quello che io voglio sentire dire e voglio vedere fare. Se dicesse: 1) ritiro delle truppe italiane dall'Iraq 2) riformare in modo decisivo il sistema scolastico affinchè tutti abbiamo la stessa cultura e lo stesso programma e la scuola sia uguale per tutti fino alla maggiore età e solo dopo vi siano indirizzi decisi dal maggiorenne 3) la salute che possa funzionare dando un buon servizio a tutti i cittadini e che gli ospedali funzionino ovunque bene 4) la giustizia che sia fatta speditamente e che vi sia la netta separazione tra magistratura e pubblico ministero 5) la legalizzazione di qualsiasi tipo di convivenza e di unione (magari non attraverso il matrimonio) 6) mettere a posto i conti pubblici 7) dare un futuro non precario alle nuove generazioni 8) lotta all'evasione fiscale...e milioni di altre cose, ma non sento niente di tutto questo, o se lo dice, non lo dice in modo chiaro e semplice. Ma il peggio è che devo votare con una legge proporzionale che io (cittadina) avevo già annullato con il referendum (voglio ricordare che il proporzionale era stato abolito con una voto popolare di netta maggioranza).
Insomma ho uno chef che non sa comandare, un altro che non sa cucinare come dio comanda, la brigata che cazzeggia, la cucina sporca e il ristorante in perdita. Lo chef B sembra un vanesio senza l'idea di un piatto fatto bene a meno che non lo debba mangiare lui, e il ristorante per la sua inettitudine e la sua arroganza è vuoto e in perdita. Mentre lo chef P appare come un bonaccione in balia della vaghezza e della precarietà e cucina in modo approssimativo, e la brigata si fa troppo i cazzi suoi.
Eppure io cliente in questo ristorante ci credo, mi piace dov'è, avendo viaggiato tanto credo sia il ristorante più bello del mondo. E lo dico e lo posso dire in virtù del fatto che qui io neanche ci sono nata. Ragionando da cliente preferisco lo chef P. Ma deve impegnarsi di più. Altrimenti il ristorante chiude. Diamine! abbiamo la migliore cucina del mondo e sembra che questi due manco lo sappiano.


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marzo 11, 2006

sumochef: quinta puntata


Mi sveglio ogni mattina con la necessità che devo andare avanti, nonostante la mancanza, la nostalgia e la lontananza. A volte rientrando nella stanza d'albergo mi faccio veloce una doccia ed esco girovagando per la città, camminando lungo la riva del fiume e osservando i miei simili che parlano un'altra lingua e devo sempre stare attenta a quello che dicono collegando il traduttore interno con un' impegno stancante.
Una sera sumochef mi chiede di andare con lui a mangiare dopo il lavoro, come dire: andiamo a bere. Usciamo e mi porta in un ristorantino meraviglioso. Un vero luogo giapponese. Come da immagine stereotipata. Piccolo, raccolto dove ti cucinano davanti servendo il cibo in minuscoli piatti di ceramica di varie forme e colori. Non mi lascia neanche leggere il menù, ordina e decide tutto lui anche il bere, pare essere l'habituè. Mi dico che qui è così, se sei ospite l'altro decide tutto tu non devi pensare, non devi decidere, devi rilassarti e lasciarti andare. Dopo una lunghissima sequenza di piatti e piattini, assaggi e assaggini, belli e bellissimi, buoni e buonissimi, delicati e forti, bevendo una quantità di sakè non indifferente, chiaccherando del più e del meno, lui inizia a farmi una serie di domande infinite...sulla mia vita, sul matrimonio, sulla figlia, sul lavoro...e poi mi racconta la sua di vita. Benché io non abbia chiesto nulla. Racconta dei suoi due figli, di sua moglie, della sua casa, della sua enorme passione per Escoffier, e l'ho guardato a lungo pensando di non aver capito bene e chiedo:
Escoffier?
Sì, sì io penso sia stato un genio
Davvero?
Ci penso perplessa: Giorgio Augusto Escoffier è vero che ha messo i pilastri dell'alberghiero, è vero che ha fondato l'albergo più importante del mondo insieme al signor Cesare Ritz, è vero che è stato un cuoco da cinquestellecinque, è vero che ha rivoluzionato la cucina, ma è vero anche l'ha militarizzata, "la brigata", la gerarchia, e...e...ma insomma stiamo parlando del 1900, riguardo sumochef. Lui comincia a convincermi:
Pensaci bene, nessuna cucina di nessun albergo sarebbe quello che è senza Escoffier
mmm...
Pensa al menù, pensa a quello che diceva del menù che dev'essere un'orchestra del gusto, pensa a come tu scrivi un menù
mmm...
E così entusiasta che non ho cuore di dirgli che non sono proprio d'accordo, insomma stiamo parlando del 1900, cento anni addietro, la cucina s'è così evoluta, le salse nessuno le fa più, e prima di Escoffier c'era Marie-Antoine Careme, secondo me il migliore, più intenso e più vero, ma dico:
Sì mi hai convinto, Escoffier è il migliore
Mi guarda e si mette a ridere molto divertito:
Stai diventando una giapponese!
Perché?
Dici sì ma pensi no!
Rido anch'io, ma credo che non sia una tecnica solo giapponese, e chiedo dei dolci e lì ecco la cucina giapponese, ma oserei allargare il discordo a tutta la cucina orientale, non c'è, nel senso che proprio gli orientali non sono capaci di pensare al dolce. Perché non hanno la panna, il latte, il burro, lo zucchero, non possiedono la nostra cultura millenaria del latticino.
Quando glielo faccio notare:
Prendi Pierre Hermé per esempio
Chi?
Non lo conosci?
E parto dichiarando che la pasticceria francese è una spanna sopra le altre e gli racconto di Pierre Hermé, un autentico genio della nuova pasticceria francese, lui s'illumina tutto felice comprendendo di chi sto parlando
Quello enorme, il ciccione
Siete tutti ciccioni, dico io
No io no! Dice serio.
Mi sta prendendo in giro? Lo guardo ma lui è serio davvero. Pensa di non essere ciccione. Non pensa di essere grasso, obeso e neanche che so, in carne. Chiudo gli occhi e decido: mi finisco una boccia di sakè, non ho cuore di affrontare questo argomento.

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marzo 07, 2006

il mangiapalle


Ho già parlato di lui qui. A guardarlo sembra un bell'uomo. Simpatico. Grandi denti però. Anche se io non sono della scuola lombrosiana questo volto allegro mi mette l'ansia sottile. Non so dirvi perché. Anzi. Lo so il perché. Ho già detto che ci si doveva scrivere un saggio di oltre 1000 paginette ma la società delle immagini pensa che girare un film sia meglio. Il regista Martin Weisz c'aveva pensato e così doveva uscire sul grande schermo a marzo la pellicola dove il ruolo di Meiwes è interpretato dall'attore Thomas Kretschmann. In Usa è già stato distribuito con il titolo: «Butterfly, a Grimm Love Story». Ma...e c'è sempre un ma, l'avvocato di Meiwes ha fatto ricorso e il giudice Bodo Nordmeier l'ha accolto affermando che "anche un criminale accusato di aver commesso un reato inimmaginabile ha diritto alla tutela della propria personalità". Quindi in Germania il film non uscirà.
A sto punto non si capisce perché Meiwes è tornato sotto processo dopo che la Corte di Cassazione ha ritenuto «troppo mite» la sentenza di primo grado emessa dal tribunale, ordinando un nuovo giudizio. In effetti la sentenza è di 8 anni e mezzo, vista così in effetti è poco, ad Armin la carne piace. Troppo. Non diventerà mai vegetariano. Assicuro che non sto facendo del grezzo umorismo.
Pare che la casa di produzione abbia offerto all'Armin un'enorme somma di denaro...ora non so che dire di fronte a tanta ignomia. Se mandare affanculo la casa di produzione, se dire al giudice di riprendersi, oppure dire alla corte di non rifare il processo... vorrei chiamare alla sbarra l'ingegnere che s'è fatto mangiare. Ah già illo è morto. Ma dovessi fare il film lo girerei stile Rashomon. Di fondo continuo a sostenere la tesi che bisogna scrivere un saggio. Scrivere. Non girare un film. Ho l'impressione che dopo Hannibal un po' di gente lo stia copiando. La potenza delle immagini. E' un po' come quel coglione che con un piccolo aereoplanino s'è schiantato contro il Pirellone. Copiando le gesta dell'altra banda di coglionazzi che si sono schiantati contro le due Torri. Ma anche scrivere non so se vada bene perché mi sovviene d'un tratto il ricordo di "I dolori del giovane Werther". Tutti quelli che lo leggevano finivano che si vestivano come il giovane Werther e immancabilmente tentavano il suicidio. Discorso complesso lo so, ma la mancanza di creatività di certa gente è patetica. Per dire.

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marzo 03, 2006

Tipologia di cliente: primogenere


Con questo capitolo apro una sezione dedicata alla catalogazione del cliente che viene identificato per come arriva, dove si siede e cosa mangia.
Metti una città grande, caotica e fredda, colma di metropolitane, una città alla moda, una città di moda e ci metti dentro un po' di gente e poi via via cominci a vederla 'sta gente e diventano subito dei personaggi e devi dare loro da mangiare e diventano d'un colpo clienti.
Iniziamo: il cliente primogenere (sesso femminile)
Al tavolo del ristorante già l'aspettano le sue amiche che intanto si sono fatte fuori una boccia di vino e stanno strillando e disturbando tutti gli altri clienti. Si sono sedute al centro del ristorante e profumano così tanto che hanno mandato a ko tutto il setto nasale dei camerieri in sala e della brigata che sta in cucina. Primogenere arriva trafelata, vestita tutta charmant all'ultima ora, tacco 12, ha appena litigato con il taxista velenosamente, si siede dopo aver baciato e strapazzato le amiche e comincia a chiaccherare di tutti i suoi ultimi sbattimenti e avvenimenti (passando dal parrucchiere, l'estetista e arrivando agli uomini, in genere non propri ma quelli delle altre). Non prende il menù che il cameriere le porge gentilmente anzi neanche si accorge del cameriere che è in piedi da un'ora accanto alla sua sedia, che sfinito infine silenziosamente glielo lascia sulla tavola e si allontana.
Poi dopo mezzora di chiacchere a voce non bassa, alzandola di tre ottave: ma c'è qualcuno in questo posto? (che già definire posto un ristorante ha la capacità di far partire il nervo della chef).
Il cameriere si avvicina solerte e lei chiede: posso avere un bicchiere di vino e il menù?
Il cameriere la guarda e sta per prenderla a schiaffoni. Ma tant'è, paziente riprende il menù appoggiato al tavolo mentre le amiche iniziano a ridacchiare e glielo riporge.
Che vino avete? voglio vino bianco, anzi mi porti un calice di champagne
Non abbiamo champagne
In questo posto non c'è niente (e il cameriere la guarda e vuole ucciderla lì sul posto), allora portami un prosecco (il passaggio dal lei al tu al primogenere viene spontaneo e non si sa bene il perché). Anzi porta una bottiglia di prosecco.
Le amiche: ma noi stavamo bevendo il rosso.
Cosa cambia? (infatti da sempre vino rosso e prosecco si equivalgono) non importa, io voglio il prosecco.
Le amiche docilmente cedono.
Portaci anche delle patatine
Non abbiamo patatine
Lunga lotta di sguardi tra lei e il cameriere. Ridotto a un ammasso di cenere il cameriere si dirige rigido in cucina dove esplode in una sequela di rosario di bestemmie e insulti alla puttanavaccatroia che siede a quel tavolo laggiù mentre la chef tenta inutilmente di placarlo. Non appena la chef viene a conoscenza allibita della frase delle patatine ha un moto di stizza e vorrebbe uscire in sala per fare una sclerata. D'un tratto le parti s'invertono e il cameriere tenta di placare inutilmente la chef. Ritrovato entrambi l'equilibrio, il cameriere ritorna in sala con un sorriso stentoreo e inutile, portando degli stuzzichini che la chef ha buttato sul piattino scazzata. Ovvio primogenere non ringrazia. Il cameriere apre e versa il prosecco a lei e alle sue amiche. La boccia finisce in un nanosecondo.
Portane un'altra e ah altri stuzzichini che ho una fame che non ci vedo più.
Altro giro di stuzzichini e altro giro di bestemmioni. Del cameriere e della chef. Non si placano a vicenda.
Mentre tragugia il prosecco lei sta un'ora a sfogliare il menù e poi comincia:
Cosa prendo? voi cosa prendete? (ma non aveva fame?! non più, perché si è otturata di stuzzichini e di bollicine)
Le altre partono per dire la loro, e nel ristorante la musica di sottofondo viene coperta da urla sguaiate.
Ma io non ho voglia di carne
Prendi il pesce
Non ho voglia neanche di pesce
Prendi un primo, una pasta
Non posso, sono a dieta (che cazzo sei venuta a mangiare al ristorante?! ci si chiede perplessi)
Prendi una zuppa
No, mi gonfia la pancia (e questa qualcuno me la deve ancora spiegare!)
e dopo aver passato mezzora sul menù si decide
Un filetto con vicino un'insalata mista e il filetto lo voglio ben cotto (che la chef furba il filetto mette sempre nei menù, perché lo sa che esiste primogenere). E s'inizia che richiama il cameriere e non voglio l'insalata mista, solo il filetto. Poi richiama il cameriere e questa danza va avanti una decina di minuti e alla fine le amiche prendono di petto la decisione che non deve più stracciare le palle. Il cameriere ormai non ha più il suo solito sguardo. Lo ha sostituito con lo sguardo di un serial killer e vuole cospargere la tavolata di benzina e la chef lo incita pure lei.
Servito il filetto ben cotto (che sia ben cotto altrimenti lo rimanda indietro), l'insalata non dev'essere condita perché lei è a dieta e nessuno sa condire l'insalata, si avvicina il momento topico del dolce. E non ho mai ben capito ma primogenere ordina sempre e solo il sorbetto (d'estate, d'autunno, inverno e primavera il sorbetto!) che ovvio non dev'essere di limone, che è un'astringente e dopo l'elencazione da parte del cameriere,
questi gusti non mi piacciono ma il sorbetto all'arancia ce l'avete?
no non l'abbiamo (il tono del cameriere a questo punto è quasi strafottente)
in questo posto non c'è niente, portami una sambuca...
Riconoscerete di sicuro primogenere perché prende invariabilmente filetto e insalata e sambuca, perché è sempre molto poco gourmet e il cibo non sta nelle sue priorità e al ristorante va solo e semplicemente per farsi vedere e non per mangiare. Farsi notare è il primo atto della giornata di primogenere e quando entra al ristorante, riesce in un solo secondo a farsi odiare da tutti i camerieri presenti in sala. Mentre alla chef piacerebbe moltissimo cacciarla dal ristorante che passi l'insalata, passi la sambuca e il sorbetto, ma se c'è una cosa che proprio la chef trova ignobile e non piace è il filetto ben cotto. Come rovinare la carne morbida e renderla più dura di quello che dovrebbe essere. Insomma primogenere starebbe bene tra gli shampisti che se solo cambia salone ed entra in sala succede un dramma, se non fosse che i camerieri sono molto pazienti, più degli shampisti. La chef per niente. Per dire.

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marzo 01, 2006

1965. Zurigo-Napoli. Il cestino.


Arrivavano le vacanze di Natale. E mi venivano tutti a prendere e si partiva dalla stazione di Zurigo per andare giù. A casa della nonna Teresa. La stazione di Zurigo era tutta pulita, grande e rumorosa, e il treno su cui salivamo era di solito preso d'assalto da una fiumana di italiani che rientrava, pieni di regali da portare ai figli, alle madri, alle mogli, alle famiglie, accasa. Un assalto che finiva sempre per mettere d'accordo tutti. Erano abbracci e sorrisi e c'era un'immane allegra gentilezza perché si tornava accasa, laggiù, una terra soleggiata, lontana e disgraziata. Si saliva sul treno e iniziava il viaggio ed era LUNGHISSIMO: un'eternità di viaggio. Durava un giorno o due giorni. Si ci accomodava nello scomodissimo scompartimento come se fosse il salotto di una casa e si tentava di mettersi comodi con alcune valigie in mezzo a mo' di tavolino. Si faceva amicizia con gli estranei e noi pochissimi bambini correvamo lungo il corridoio oppure stavamo attaccati alla finestra che era uno spettacolo lentolento quello che scorreva dinanzi agli occhi. La zia Giuseppina e zio Mimì parlottavano del rientro che bisognava portare la sopressa, il pane e l'olio e già stavano organizzando tutto per tutti. Mia madre trovava sempre posto nello scompartimento mentre gli uomini in genere stavano seduti nei corridoi a fumare e parlottare. Tutti tiravano fuori dalle valigie i pranzi, ma mio padre no. Lui era diverso. Lui era un vero nordico. Detestava portarsi dietro il cibo. Mio padre 'sta storia di portarsi il panino lo schifava. Immagino fosse l'unico di tutto il treno a comprarsi il cestino da viaggio. Lui scendeva alla stazione di Milano per andare a comprarlo con grande disapprovazione della zia Giuseppina e di zio Mimì che era uno chef vero. Di fondo mia madre da vera parvenue il cestino l'approvava. Pertanto io ero l'unica bambina di tutto il treno che aveva sulle sue gambe il cestino da viaggio. La famiglia intera ci guardava con somma aria di nauseata disapprovazione, e non erano gli unici, gli altri lo stesso. Ma a me il cestino piaceva assai. Assai. Sul serio. E mangiavo tutta contenta e fiera mentre gli altri bambini mi guardavano tra l'invidia e la soggezione. Pensavano contenesse svariate schifezze ma in verità c'era un'enorme fettona di lasagna grondante olio burro e besciamella con pochissimo sugo. Il commento orripilato di zio Mimì era -ndo' sta o ragù?!- mentre zia Giuseppina scuoteva la testa-povera creatura che ti fanno mangiare! e papà invariabilmente affermava -xe bon!. Il cestino da viaggio conteneva anche una frutta e un pezzo di formaggio e un panino molliccio. Forchettina e tovagliolo. Chicchissimo.
E si passava il tempo a giocare carte, a fare la maglia, a raccontare tutta la storia di un'esistenza tra padroni cattivi, orribili, sfruttatori, paghe così così oppure buone, comunque ottime rispetto alla miseria e di case che si dovevano costruire e di fatiche immani e di sacrifici straziati famigliari. Di lontananza e nostalgia della propria terra che lentalenta s'avvicinava. E pure io me ne accorgevo dal paesaggio che lentolento cambiava, dalle montagne, alle colline e le pianure e poi la costa e i cipressi e le rocce. I colori del verde intenso dei pascoli svizzeri si trasformavano all'azzurro abbagliante del sud, all'argento degli olivi della Toscana e al verdemare dell'agave a strapiombo sul mare scintillante. Si scendeva a Napoli e d'un tratto tutto era violento, intenso, urlato e pieno di colori e odori, puzze e profumi che solo lì c'erano che erano gli odori, le puzze e i profumi della nonna Teresa che vestita di nero ci aspettava impaziente e c'accoglieva tra abbracci, lacrime, baci e sorrisi. E il cestino io me lo portavo sempre appresso finché non si arrivava a casa di nonna. Che il cestino nessuno riusciva a buttarmelo via, nonostante le insistenze di tutti incluse quelle di papà. Che il cestino a me piaceva assai. Assai. Strana 'sta cosa.

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