novembre 28, 2005

1984. Moscow. Blinis.



1984. Di rientro da Tokyo a inizio dicembre facciamo scalo a Moscow. CCCP. Sull'aereo dell'Aereoflot mentre io e la mia amichetta X bevevamo vodka per dimenticare (io per la disperazione di aver lasciare il Giappone, lei per il terrore di volare) la mia amichetta X che parla spagnolo benissimo, sente questa banda di modellame che strilla cabrones alle hostess e inizia a chiaccherare con una e scopre che era un'amica di una sua amica e il mondo è veramente piccolo e si fa amicizia e la banda di modelle passa il tempo a ridere, ridere e ridere. Atterriamo a Moscow. A Tokyo facevano 20 gradi. Temperatura gentile. Si stava bene. Tutte sgargiule usciamo dall'aereo. Una cella frigorifera! nevica ed è tutto bianco, veniamo circondate da una banda di orsi polari e congeliamo di brutto. Le modelle continuano a ridere, ridere, ridere. Ci mettiamo in fila diligentissime che ci sta un esercito armato fino ai denti mentre noi i denti li battiamo sul serio. Dobbiamo stare una notte a Moscow. Ma prima c'è il controllo del passaporto. In fila dentro nell'aereoporto ghiacciato con le stalattiti ci rimaniamo per cinque ore. I sovietici controllano minuziosamente tutto. Aprono le nostre borse e sparpagliano il contenuto toccandolo come se fosse uranio arricchito. Le modelle continuano a ridere, ridere, ridere. Controllano il passaporto, guardano la foto e scuotono la testa. ("No guarda sono io, sì quella lì sono io. Non sono venuta bene ma sono io sul serio") Facciamo un salto nel duty-free e negli scaffali c'è solo vodka e caviale. Compriamo cosa? vodka e caviale. Due bocce e due scatole. Intanto le modelle iniziano ad amoreggiare con i militari e ridono e scherzano e fumano sigarette e le spengono e ne accendono ancora...cinque ore a fare le sceme con i militari (di leva, tutti giovani, russi, carini, stranucci tutti quanti) sempre bellebelle ridenti (cominciano un po' a starmi sul cazzo: ridono sempre) e alla fine ghiacciate ci dirigiamo in albergo. L'hotel si erge grande e terribile in mezzo al nulla, tutto bianco, tutto gelido. Shining. Fuori ci sono sentinelle con i kalashnikov. Pattugliano l'albergo, ma alcuni militari hanno accompagnato le modelle e parlottano con i loro commilitoni e bisbigliano: queste la danno e sono anche fighe. Il fascino della straniera vale pure in CCCP. Entriamo nell'ascensore e si può schiacciare solo due pulsanti che vanno solo su due piani. Ad ogni piano si esce e ci si trova davanti un'enorme ostessa/orchessa. Brutta e kattiva. Ci separiamo dalle modelle ridenti dandoci appuntamento nella sala del ristorante.
Io e la mia amichetta X entriamo in stanza e ci prende di botto un attacco d'ansia e depressione e per tirarci su apriamo la vodka e ne beviamo un tot. La stanza più la guardiamo e più ci prende male. Scendiamo. Nella sala ci sediamo e chiediamo da mangiare, dopo due ore e un quarto arriva il cibo. Ci stavamo sbranando a vicenda dalla fame. Anzi noi e la banda di modellame finiamo tutta la vodka. Le modelle continuano a ridere, ridere, ridere e fare bordello. L'unico cameriere (belloccio tra l'altro) in sala ci serve un piatto con sopra: una specie di insalata russa (ma loro l'hanno chiamata insalata francese: da lì è partita una lunghissima discussione con il cameriere, testardi sti russi) un po' di caviale, panna acida e una sottospecie di frittellina. Chiediamo cos'è. Il cameriere belloccio dice: blinis. Mai visto. 1984. In Italia non c'erano ristoranti russi. Mangiamo caviale, panna acida e blinis. UNA BONTA' CLAMOROSA. Chiamiamo il cameriere belloccio e trattiamo per una cesta di blinis con carrettata di caviale accompagnata da panna acida. Lui ci guarda e dice NIET. La modellanza fa di ogni perché lui ceda. Alcune escono e chiamano le sentinelle e entrano alcuni militari con il kalashikov spianato e parte un casino infinito. Io imperterrita continuo a mangiare fottendo tutti i blinis delle altre che stanno trattando per ottenere blinis a gogò, mi otturo di caviale, blinis e panna acida. Mollo l'insalata russa che seriamente faceva vomito. Dopo previa enorme estorsione di tutto il nostro denaro il cameriere belloccio ci porta blinis e caviale e vodka e finisce che la modellanza balla sui tavoli e canta a squarciagola "guantanamera" con i militi sovietici che battono le mani a tempo e pure loro si lanciano nelle danze.
Io leggermete stordita conosco un tipo smarrito che ci guarda con gli occhi lucidi e scopro che è lì da numero due settimane. Aspettava la coincidenza per andare a Nairobi. Non aveva il visto e non lo lasciavano uscire e soprattutto non lo lasciavano telefonare. Mi prende malissimo e informo tutte della cosa. Le modelle smettono di botto di ballare e di ridere. Lo trasportiamo con noi. Ci fa conoscere milioni di sfigati chiusi nell'albergo. Lì da un mese, da un giorno, da due settimane...ci prende una paranoia violenta. Ma tra tutti gli sfigati una modella conosce due giovani romani di ritorno dalla Giamaica. Avevano un chilo di maria giamaicana. Le modelle riprendono a ridere, ridere, ridere...
Sinteticamente: la mattina dopo le modelle non ridevano più. Per niente. La mia amichetta X voleva un caffè. Il cameriere belloccio l'ha guardata come se fosse un insetto sconosciuto. Io rivolevo il blinis. Il cameriere belloccio me l'ha portato accompagnata dalla migliore marmellata amara di amarene russe mai assaggiata e la panna acida. Una poesia. In aereo sono stata male. La mia amichetta X pure. Ma anche le modelle. Dicevano che era stata la maria. Secondo me no. E' stata la panna acida. Sicuro.
(foto: Vladimir Illic da piccolo)

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novembre 27, 2005

la ricetta della piccolacuoca: maccheroni alla chitarra con sesamo, pomodorini e ricotta affumicata friulana


Ingredienti per 4 persone
Tempo d'esecuzione: 20 m.
320 gr. di maccheroni alla chitarra
(marca De Cecco)
200 gr. di pomodorini
50 gr. di semi di sesamo già tostati
10 gr. di basilico tritato
1 spicchio d'aglio
1 peperoncino piccante (piccolo)
20 gr. di olio extravergine d'oliva
80 gr. di ricotta affumicata friulana
sale q.b.
In una padella antiaderente versare l'olio a portare alla giusta temperatura per soffriggere lo spicchio d'aglio battuto e in camicia. Aggiungere il peperoncino, i semi di sesamo e il basilico precedentemente tritato. Saltare 2 minuti, e versare i pomodorini tagliati a metà. Saltare velocemente a fuoco ben forte. Spegnere dopo 5 m.
In una pentola capace portare l'acqua a bollore, versare il sale e buttare i maccheroni (gli spaghetti a forma quadrata). Scolarli molto al dente e finire la cottura nella padella con i pomodorini e il sesamo. Servire nei piatti la giusta porzione e sopra grattare a scaglie grandi la ricotta affumicata friulana.
Questo piatto lo si può servire anche con la ricotta siciliana, ma la ricotta affumicata friulana ha il vantaggio di non essere particolarmente salata e si sposa bene con il gusto del sesamo.
I maccheroni alla chitarra per chi non lo sapesse sono spaghetti a forma quadrata ed è una pasta all'uovo d'origine abruzzese. Per trovarli con una buona distribuzione senza impazzire, il pastificio industriale senza infamia e sanza lode che li produce è De Cecco. Altrimenti dovreste avere l'apposito strumento per farli detto appunto "la chitarra", telaio in legno a forma rettangolare o quadrato su cui sono tesi numerosissimi fili d'acciaio. Se avete il telaio la dose per i maccheroni è la seguente:
(dose per 6 persone)
500 gr. di farina di grano duro
5 uova
sale q.b.
Se non sapete impastare e fare la pasta è inutile qui darvi spiegazioni o consigli. Appendete "la chitarra" e precipitatevi ad acquistare il prodotto praticamente confezionato. Altrimenti iscrivetevi a un corso di cucina, è meglio. Ovvio che il corso non deve essere tenuto da me, persona notoriamente poco paziente.
Da chiarire un concetto base: se vi piace il sesamo è una pasta buonissima a detta di tutti quelli che l'hanno mangiata. Nella mia statistica di piatti venduti questo risulta essere un best seller. Se invece il sesamo non vi piace...ci sono un sacco di altri siti con interessanti ricette (l'elenco è qui accanto pubblicato), non capisco perché siete ancora qui.

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novembre 25, 2005

The Best, the Beast and the Bravest


Sono abbastanza vecchia da ricordarmi della tv in bianco e nero. Best: lui me lo ricordo bene. Perché era l'unico che girava con i capelli lunghi in campo. Tutti gli altri con i capelli tagliati corti. Best no. Aveva la palla sempre tra i piedi e giocava ridendo. Cioè lo vedevi che si stava divertendo. E, come Cassius Clay, danzava con la palla tra i piedi. Poi picchiava la moglie a casa e poteva anche essere the Beast ma sul campo aveva la classe. Non acqua. Gli inglesi lo adoravano, tutti lo adoravano e qui c'è un pezzo grondante retorica inglese, diversa dalla nostra retorica è chiaro. Io me lo ricordo, ero piccolina. Ma me lo ricordo proprio bene che girava capellone mentre tutti gli altri no. La diversità, quella mozartiana, la intuisci anche se sei piccolina. Crescendo comprendi poi la tragica umanità di (sop)portare un talento troppo grande, quello del the bravest, che non ce la fa a vivere in mezzo a tanti Salieri. Puoi chiamarti Best, e con quel nome devi diventare per forza the best, ma alla fine the beast salta fuori perché essere the bravest è difficile e non ci si convive bene. In cucina (forse ovunque) sta cosa la vedi spesso. Molti, the bravest non sempre ce la fanno. Lui non ce l'ha fatta.

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il giardino botanico nell' hotel e nel ristorante


Ci sono ristoranti e hotel senz`anima, tanti posti uguali ad altri, stessi bouquet di fiori (vanno tutti da quel fioraio lì?), stessa tipologia di menù...vorrei entrare in un ristorante o in hotel e trovarmi davanti un giardino botanico che mi ricordi terre e storie antiche, orti ed erbari con i disegni fatti a mano e il nome latino. Penso sempre a quanta fortuna abbiano le genti del Mediterraneo con le tante odorose erbe aromatiche. Mi piacerebbe entrare in una hall di un grande hotel o in una piccola sala di un ristorante e vedere lavanda e basilico, mirto e olivo, menta e rosmarino, salvia e dragoncello, origano e timo. Bisogna ripartire dall'idea che avere un giardino botanico è da gran signori, perché passare le ore nelle serre riporta a un tempo dove avere un giardino botanico era il VERO lusso, perché era un raccogliere piante strane, lontane e uniche. Bisogna mettere sui buffet al posto di orribili decorazioni le piante officinali, costruire piccole serre, quasi un giardino antico miniaturizzato. Battiamoci per il giardino botanico dentro nell`hotel e nel ristorante, mettiamo il basilico nei vasi di latta (come si fa nel sud) mettiamo l`origano e il mirto, l'artemisia e l'assenzio, la pimpinella e la ruta, il crescione e il rabarbaro. Basta con 'ste piante senza nome e senso, con 'ste decorazioni senza arte nè parte. Mettiamole sul davanzale di cucina, affinchè i profumi si mescolino con le salse preparate e i piatti abbiano un sapore coltivato da noi. Sporchiamoci le mani di terra, zappiamo e annaffiamo le nostre profumate piante. Guardiamo oltre la finestra e vediamo il nostro minuscolo orto pieno di erbe crescere giorno dopo giorno. E a poco a poco iniziamo a sapere da dove arriva il prodotto. In questo confuso mare fatto di ignoranza e presunzione.

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novembre 23, 2005

1984. Tokyo. Wasabi.


Sono arrivata stravolta dopo 15 ore di volo sull'Aereoflot, la compagnia sovietica. L'unica compagnia aerea civile al mondo armata. Avevano incorporati un paio di missili. Scalo a Mosca quando c'era ancora l'URSS. Le hostess erano grassissime, brutte e cattive. Chiedevi l'acqua e ti dicevano NIET. Chiedevi il bagno e ti mandavano nella cabina con i comandanti a fare la piscia. Mi sono depressa e non ho chiesto più niente. Ah sì: ho chiesto la vodka e quella me l'hanno data. A litri. Quando sono scesa non capivo più un cazzo, non sapevo cosa fare e mi stavo perdendo nell'aereoporto di Narita che è immenso. Kika la mia amica mi ha preso per mano e mi ha trascinato nei vari metrò per altre tre ore e siamo arrivate a casa di quello che ci avrebbe ospitate. Un prete. In Giappone. Come dire un pinguino nel Sahara che non c'ha il mare dove pescare. L'appartamento era grande come il più piccolo monolocale italiano. Come dire il nano più alto del mondo (Berlusconi? Maradona? possiamo aprire un listone)
Era sera e avevamo fame. C'erano kanji (ideogrammi) illuminati ovunque e non capivamo niente, ma una cosa non manca in Giappone: i ristoranti. Fuori hanno un'ampia esposizione di piatti finti, che sembrano veri e con il prezzo. Bastava capire i numeri sempre ideogrammati. Caso mai uno avesse fame: entra, sceglie e mangia. A qualsiasi ora. 24 ore su 24. Hai fame? No problem.
Comunque il prete ci ha portato dentro un minuscolo posto dove servivano la soba. I loro spaghetti. Era estate e la soba diventa zarusoba, soba fredda servita su uno stuoino con una salsa detta tsuyu in una ciotola a parte accompagnata dall'erba cipollina tagliata fina, il wasabi e lo zenzero grattugiato. Tutto in ciotoline bellissime. Non avevano ovvio le forchette e ci siamo messe sotto con i bastoncini. 1984. Non c'erano ristoranti giappo in Italia. Il wasabi non sapevo cos'era. Ha un colore magnifico di verde felce. Invitante. Non ho chiesto cosa fosse. Me lo sono messo tutto in bocca. E sono morta. Lì sul posto. Mi ha aperto tutta la faringe, i polmoni sono andati in fiamme, la testa improvvisamente era come se fosse entrata in una ghiacciaia, il setto nasale è andato in tilt e ho iniziato a lacrimare. Ho pianto. Tantissimo.
Per dire: Tokyo è come il wasabi. La devi prendere a piccole dosi. Altrimenti vai in tilt. E' enorme. Piena di treni. Di giardini zen grandi come un fazzolettino che contiene confettini. Di case minuscole a due piani e l'odore di cibo che ti perseguita. Ovunque. Che non riconosci. Perché è l'odore della soia, dell'olio di soia e del tofu e del daigon.
Tokyo è troppo luminosa. E' troppo umida in estate. Ha piccoli angoli con i templi e i cimiteri ognidove. E passi le ore in metropolitana. Ore. Perché Tokyo è grande come la Lombardia. E vai in giro che sei l'unico bianco per giorni e giorni. Il Giappone non ha idea del melting pot. Non sa cos'è. Un paese chiuso. Tokyo ha un sacco di centri e non ha un cuore. Ne ha troppi e non sai mai a che ritmo batte. E sono tutti importanti.
Il prete so che si è sposato. Aveva trovato un'altra pinguina nel suo deserto.

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novembre 22, 2005

la ricetta della piccolacuoca: la torta di cioccolato amaro


Ingredienti:
400 gr. di cioccolato amaro 80%
70 gr. di burro
70 gr. di zucchero
50 gr. di latte
1 cucchiaio da the di rum
5 uova
60 gr. di maizena
1 bustina di lievito vanigliato
10 amarene (Fabbri) e il loro succo
200 gr. creme freche (panna acida)
In un contenitore di vetro mettere il cioccolato a pezzettini aggiungendo il burro, lo zucchero, il latte e il cucchiaino di rum. Mettere il contenitore nel micronde e farlo andare alla massima potenza per 4 minuti. Con una frusta girare bene e sciogliere il cioccolato, aggiungendo di volta in volta tre uova intere e due tuorli. Continuare a mescolare e versare a pioggia la farina maizena e il lievito e girare la frusta affinchè si amalgami bene il tutto. In una tortiera con cerniera di diametro di 20 cm. con carta forno versare tutta la miscela e decorare con le amarene. Infornare nel forno preriscaldato a 170 gradi per 20 min. Togliere la torta dal forno e spennellare con il succo delle amarene. Cospargere la torta di zucchero vanigliato. Servire semicalda con accanto la creme freche.
La ricetta l'ho mandata anche all'amico Nicola (Fabbri) che sta facendo un concorso, benchè abbia in odio i concorsi (detesto le competizioni e le gare gatsronomiche mi fanno pena). E gliel'ho mandata solo perchè è una persona che mi fa simpatico. Aggiungo che ci sono milioni di varianti su cosa metterci sopra, diciamo che la migliore dopo quella delle amarene è quella con i lamponi e la marmellata di lamponi. E' una torta libidinosa. Non conosco nessuno che non se ne sia presa un'altra fetta. Il segreto sta nella cottura. Deve essere breve perché il centro della torta deve rimanere molto morbido, quasi cremoso, da tirare su con il cucchiaio...E' la mia torta per eccellenza e tutti si ricordano di me solo per questa torta. In effetti la ricetta me l'ha passata Dio in persona. Ogni tanto lo chiamo per avere altre ricette ma Lui è sempre incasinato e non mi caga. Il massimo comunque è stata la Sua dritta di mangiarla con la creme freche (traduzione sbagliata: panna acida). Ecco l'illuminazione: lì capite il motivo della Sua esistenza, poi possiamo aprire il dibattito del Suo perché. Che comunque ha un Suo perché. Ogni volta che Lo incontro rimane il fatto che invece di farGli domande esistenziali profonde (chi siamo? da dove veniamo? la nascita dell'universo e i buchi neri? la fame nel mondo? le guerre? perchè cazzo sono qui? quando muoio?) finiamo sempre a parlare di cibo e di ricette e di cucina. Strana 'sta cosa.

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novembre 21, 2005

1983. Londra. Spaghetti House.



1983. Londra. Ci sono arrivata che avevo 23 anni, stavo bella stordita ed era il primo vero viaggio fatto da sola. Ci sono andata in autobus. Partenza:Piazza Castello, Milano. Un viaggio allucinante, lunghissimo: due giorni. Ho passato tutto il tempo sdraiata sugli ultimi sedili in fondo alla corriera guardando i paesaggi cambiare (colline, pianure, tetti francesi spioventi e neri) fino ad arrivare a Calais e laggiù si intravedevano le bianche scogliere inglesi a picco sul mare. Sono scesa dall'autobus e per poco non baciavo il traghetto. A Dover tutta felice mi sono comprata un cartoccio di fish&chips unto e bisunto e me lo sono divorato. Sono stata malissimo per le tre ore seguenti.
Londra era brutta, piena di punk, nera, sporca e povera. Una delizia. Adesso è bianca, pulita e opulenta. Un orrore.
Il metrò londinese: una roba da farti avere l'attacco di claustro in un nanosecondo. La metropoli: grande, tutto grande, ma con le case piccole e i giardini pure piccoli, gli autobus rossi e le cabine rosse.
Poi cerco casa e trovo una camera ad Highgate, accanto a un cimitero bellissimo, verdissimo e pieno di sterpaglie e di statue rotte. Un set da cimitero di cinema horror. Poi scopro che ci hanno seppellito Karl Marx.
Finisco tramite i soliti maneggi di amici di amici a lavorare per in uno strano locale Vecchia Milano. Ristorante che ai tempi apparteneva alla catena della Spaghetti House, un'istituzione a Londra negli anni '70 e '80. Mi mettono a fare la cassiera. Cazzo. Non ci capivo NIENTE di sterline e per una settimana ho fatto dei casini. Inenarrabili. Ma succede che uno sous chef una sera sta male e non viene e non si fa sentire e non si fa vivo. Non si farà più vivo. Il manager del posto furibondo vuole bruciare il locale, la cucina e tutti noi. Come se non bastasse la stessa sera quello che faceva tutta la linea del freddo, Gianni un vero tesoro di uomo, arriva fatto di ero (appena fatto giuro, l'occhio ceruleo con la pupilla a spillo) che non ce la fa neanche a stare in piedi e parte un'altra sclerata del manager. Nell'ansia di calmare le acque dico tranquilla (e poco furba): vado io in cucina.
Urla: tu non sai tenere una pentola in mano.
Lo guardo: ecco una cosa così a me che cucino dall'età di 8 anni non la dici e rispondo sicura (e poco furba): so cucinare.
Urla: facci vedere (e via di bestemmioni)
Insomma mi sono messa lì e ho fatto del mio meglio per non andare in merda. E quella sera non ci sono andata perché c'erano pochi clienti e poi ho preso il posto dello sous chef ai primi (ce n'erano 10 in carta. Uno svaccava a farsi tutta la linea e se non aveva la mano andava in merda dopo tre comande). Il giorno dopo che era sabato in merda ci sono andata, il locale era strapieno e tutti volevano mangiare la pasta. Per fortuna che Gianni mi aveva fatto fumare un cannone, altrimenti sarei andata in sala e avrei fatto io una bella sclerata alle teste di cazzo che aspettavano impazienti i miei primi. Cazzo. M'ero messa la cassetta dei Clash a tutto volume con la brigata che si schiattava dalle risate a vedermi impazzire dietro tutti i primi. Hanno cominciato a fare scommesse se fossi crollata oppure avrei tenuto il ritmo dei Clash. La brigata era di soli maschi che non si capacitava di avere acquisito una punk pazza scatenata. A fine serata mi hanno applaudito e io ho tirato un bestemmione e li ho mandati tutti a cagare. Gianni era un santo e si faceva tutti i venerdì, i sabati e le domeniche. Veniva sempre fatto di qualcosa (un giorno l'oppio, il giorno dopo la pasticca, Gianni si faceva una qualsiasi, l'importante per lui era non rimanere MAI lucido). Gianni io lo adoravo. Era bello, alto, magro, stranito e silenzioso. Un giorno è arrivato con un'abrasione di una corda che gli tagliava la gola. Un'echimosi non proprio bella da vedere. Gli ho dato il mio fazzoletto per coprirsi il collo. E poi un dì non si è fatto più vedere. L'ho chiamato a casa. Per giorni. Nessuno mai mi ha saputo dire che fine avesse fatto.

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novembre 20, 2005

lapiccolacuoca fa la spiega di storia. Prima lezione: il sandwich


Inauguro un seminario di storia del cibo: le mie spieghe sono molto scientifiche e vi pregherei di non interrompermi.
La prima lezione riguarda la nascita del sandwich. Il panino. Siccome al nord oltre la manica (UK) non hanno molti pani a parte quello in cassetta capiamo perchè sia nato lì e non qui. Altrimenti in Italia si sarebbe chiamato dufelleepane, oppure panin ecc.
1762. Londra, club Coccalbero (Coccoa-tree), club per soli uomini, nobili, forti giocatori, bevitori. Nel club passava le sue giornate e nottate a giocare e bere John Montague (1718-1792), quarto conte di Sandwich. Era ricco, era sposato con Dorothy, la viscontessa, ma aveva per amante Martha, la cantante (con quella faccia c'è da chiedersi come abbia potuto avere più di una donna! zitti! il titolo e i soldi ma non interrompetemi). Era annoiato, era conte, l'unica cosa che gli veniva bene e lo faceva andare in fibrillazione era il giuoco e per tenersi calmo beveva. Sì era malato, aveva il vizio. Un vero ossessivo compulsivo. (Lapo tre secoli fa! zitti! ho detto di non interrompere). Il club per soli uomini Coccalbero era frequentato da personaggi così: ricchi, nobili, viziati, annoiati e strafatti. Era colmo di tavolini piccoli, tre o quattro persone a tavolo, dove si perdevano fortune, si facevano fortune, ma in genere si (ci) perdeva in un lago di alcool e basta. John il conte passava le sue ore seduto, si alzava solo per andare al bagno. Ogni tanto la fame si avvicinava ma lui la scacciava. Gli portavano da mangiare ma lui non voleva quella robaccia. Lui voleva...non si sa, non lo so, ma un giorno il colpo di genio: voglio pane e manzo. La prima volta che John il conte ordinò il panino, lo chef del posto (cuoco che chiameremo Alain non stupido ma eternamente ubriaco, tecnicamente bravissimo e umanamente una merda, un genio tra i fornelli ma una schiappa fuori dalle cucine) anche lui bello impastato di alcool, che lì tutti bevevano, glielo fece delle dimensioni giuste, perfette 12x12 cm. (due piccole fette di pane tostato che racchiudevano due fette di manzo tagliate sottili, 2mm, era roast beef della sera prima che non era riuscito a vendere, ho scritto che era un genio no?) solo gli scappò il sale e il pepe (ripeto era ubriaco). Ce ne mise troppo. Tuttavia John il conte che aveva la bocca bella impastata, al primo morso non se ne accorse. Non se ne accorse neanche al secondo. Anzi il panino gli piacque assai. I suoi compagni di (dis)avventura giocando, soprattutto, perdendo e vincendo con lui iniziarono a imitarlo. Chiesero al garzone: portami la stessa cosa di Sandwich. Nacque così il nome. Mica il panino. Il panino quello nacque millenni addietro con il pane. Gli umani son creativi una cifra sul cibo specie se hanno fame. Ma io non stavo parlando di fame. Stavo parlando del vizio del giuoco. John il conte giuocava, manco si alzava dal tavolo e sbocconcellonava a dosi minuscole il suo panino. Forse non sentiva neanche i sapori perchè beveva, e visto la faccia e la postura ritratta nel quadro ne capiamo tutti i disgraziati e reconditi motivi. Comunque John il conte ebbe un altro grande merito storico ben più importante: patrocinò James Cook nella sua impresa. E Cook scoprì le isole Sandwich (YES), la Nuova Zelanda, l'Australia, la micro-Polinesia e le Hawaii. Dove per inciso lo mangiarono.

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novembre 19, 2005

cucire di cucina

Citazione di Frank Zappa : "parlare di musica è come ballare di architettura" Io aggiungo: parlare di cibo è come cucire di cucina. Ha senso? hanno senso tutte le riviste sul cibo e sull'enograstonomia? la guida Michelin? parlare di vino?
Ecco se scriviamo di ricette e facciamo vedere la foto io sono contenta di vedere la foto, perchè di rado leggo la ricetta. La foto mi dà 10 idee nuove. La ricetta mi preclude tutte le strade. Anni che continuo a ripetere che l'unico libro degno di nota sulla cucina "italiana" dopo l'Artusi è "Le ricette regionali italiane" di Anna Gosetti. Da questo libro attingo e leggo. Ho scoperto che
Bonilli ha detto la stessa cosa. Comincio a preoccuparmi.

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novembre 18, 2005

club sandwich


Scrivere un menù è semplice, attuarlo e metterlo sul piatto è un' impresa.
'Fare la linea' (come si dice in gergo) è un'impresa organizzativa non indifferente perché devi partire dallo spazio che hai. Esempio: hai 1uno1 frigorifero in cucina e 40 coperti in sala problema: quanti antipasti, piatti unici, primi e secondi e dolci fai? salse, insalate, verdure, erbe aromatiche, aggiungi salumi, carni, e formaggi. Diciamo: il miglior rapporto tra sala e cucina è quando a un coperto in sala corrisponde un metro quadrato in cucina. Ribadiamo: in genere non e' così. Aggiungiamo: nel mio caso non è proprio così. Sintetizziamo: in sala 40 coperti, in cucina 4 metri quadrati ma soprattutto 1uno1 frigorifero. Che menù scrivo?
Bello, mi piace. Le cose si complicano. Lo spazio è giapponese. Una soluzione potrebbe essere: tutto in ciotole, 2 zuppe, 1 primo , 1 secondo, due piatti unici e un paio di piatti con salumi e formaggi, assaggi di verdure e...dolci. Una bella carta di dolci...
Il mitico CLUB SANDWICH ci deve essere? il migliore l'ho mangiato all'
Harry's Bar di Venezia anni fa. Adesso non so se ce l'hanno ancora in carta. Se a distanza di anni ancora me lo ricordo vuol dire che era una poesia. Vera. Il club sandwich fa subito hotel internazionale e a Milano nessuno lo sa fare bene. Proprio nessuno. Ci penso. Lo metto o non lo metto in carta?
Dico 1uno1 frigorifero: spazio 1 metro quadrato massimo, quindi facciamo i conti con tutta la linea. Adesso ci penso... mmm il club sandwich...banale? che cazzo c'è di banale nel classico?
(disegno: Massimo Giacon)

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novembre 17, 2005

MORETTI e lo stato delle cose

Vi ricordate: vedo gente e faccio cose, ve la ricordate vero? e se dicessi:
faccio gente e di cose ne vedo poche? Le ultime difficoltà sono stare con le persone, parlarci assieme, conversare, capire COSA vogliono, tentare di intuire prima di chiedere, risolvere i LORO problemi e infine pormi un obbiettivo. Quindi la gggente me la devo fare. Uno stato di cose. Detta così è uno stato che non ispira. In verità è quello che succede. Non riesco più a vedere cose nuove. Quelle che mi entusiasmano. Mi capita quindi un progetto nuovo: si apre un posto e mi chiamano all'ultimo secondo netto. Come sempre. Un classico dello stato delle cose. Non sono ancora entrata in cucina. Sottopelle già so che è piccola e sfigata. Me la fanno vedere. E com'è? piccolissima e sfigatissima. Mi chiedo perchè non chiamano gli chef (ME) per la progettazione dello spazio cucina? perchè fanno sempre le cucine in posti piccoli e sfigati? Il cibo è bello e ha bisogno di luce, perché è colore, è vita...(mi spiace e non mi piace) mi dispiace sempre che venga recluso in cantina, nei sottoscala, nei retrobottega...il cibo dev'essere messo in alto vicino al cielo. Uno mangia per vivere. Se uno mangia solo per sopravvivere è uno sfigato VERO. Altro stato di cose. Scuoto la testa, sospirone e prendo sto progetto e vediamo come la risolviamo con l'apertura tra due settimane. E vai di botte di adrenalina. La devo smettere. Domani smetto. Lo dico sempre e sto sempre ad aprire posti nuovi che vedo gente e faccio cose. Lo stato delle cose. Mie.

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novembre 16, 2005

lapiccolacuoca


Passo un sacco di tempo nelle cucine, ma ci sono finestre per guardare fuori. Le cucine stanno sempre in posti sfigati a parte quando sono:
a) negli hotel con 5 stelline
b) nelle case dei VERI ricchi (non noi per intenderci)
c) nelle campagne (in alcune campagne)
Per capirci: questo è solo un mio sguardo attraverso il mio oblò della mia cucina. A volte darò ricette, a volte anche foto, a volte parlerò di quello che capita nelle cucine. A volte (raramente) parlerò della (s)cortesia degli ospiti/clienti. A volte tratterò male tutti quelli che stanno intorno a me. Non parlerò male invece dei lavapiatti e dei commis. E parlerò dei viaggi. Perché quando si sta in un posto molto chiuso, caldo e sfigato capiti che si viaggi molto. Dentro. Mica con le sostanze. Il trip quello lo lascio stare. Che ne abbiamo fatti. Ma mo' sto vecchia e basta un po'.

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